La peggiocrazia adranita

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Diciamocelo pure chiaramente. Politici e amministratori locali sono lo specchio fedele della società che rappresentano. Uno straordinario esempio di corrispondenza tra rappresentati e rappresentanti. Ovviamente, esistono delle aree di non sovrapposizione che, però, non riescono a fare breccia in questo coerente schema. La nostra democrazia comunale, seppur con l’importante modifica dell’elezione diretta del sindaco (introdotta nel ’93), non ha certamente partorito esempi virtuosi. Se ciò non è avvenuto, la principale causa è da imputare all’incapacità dell’elettorato di scegliere per il meglio, pur nell’ambito della limitata offerta. D’altronde: “Si vuole sempre il proprio bene, ma non sempre lo si vede …” (J. J. Rousseau). La conquista del potere di scegliere direttamente la persona cui affidare le sorti della propria città, non ha prodotto gli effetti sperati, perché è mancata la capacità di valutare le reali qualità, l’affidabilità personale e il programma del candidato sindaco. Anzi, tali “carenze percettive”, unite alle condizioni di bisogno di tanti elettori, hanno favorito la personalizzazione della politica attorno al potere di soggetti dediti, talvolta in modo spregiudicato, alla creazione di strutture di consenso personale, con la promessa – peraltro raramente mantenuta – di alimentare gli appetiti di ogni possibile clientela. E, purtroppo, di fronte ad un corpo sociale e politico “acerbo”, chiuso a riccio sugli egoismi di ognuno, privo ancora del minimo sindacale di senso civico, non c’è legge, elettorale o non, che possa fare miracoli. In tal modo, non siamo riusciti ad avere un primo cittadino che abbia mai realmente assunto il ruolo di guida di un processo complesso di riconsiderazione della nostra identità e delle prospettive di sviluppo del nostro territorio.

I nostri amministratori non si sono mai posti, né avrebbero potuto, il dilemma della scelta: limitarsi a lasciar andare la barca, rispondendo alle emergenze, minimizzare i danni, e assicurarsi la piccola quota di autonomia decisionale e di risorse finanziarie necessarie per la propria sopravvivenza; oppure rinunciare a ciò e mettere le mani nella macchina amministrativa per migliorare l’efficienza degli apparati, vista la necessità del recupero di quote crescenti di risorse finanziarie direttamente da parte del Comune. E’ chiaro che, in quest’ultima ipotesi, sarebbero state necessarie delle capacità realizzative non indifferenti ed una forte volontà politica, visto lo scontro che si sarebbe generato con i burocrati e i mal di pancia di molti cittadini che non avrebbero capito, almeno nell’immediato, il perché di tale sommovimento. Non ci sono, infatti, abituati. Allora meglio darsi la mano e assecondare i propri istinti conservatori. Ognuno al posto suo. Al diavolo l’efficienza, i servizi e il risanamento finanziario. L’importante è prendersi cura delle proprie masserizie. Politici e burocrati uniti da un tacito patto di non belligeranza, contro ogni prospettiva futura.

La semplice presa d’atto del consiglio comunale, peraltro infarcita d’una retorica abominevole, della necessità di un piano di riequilibrio finanziario “suggerito” dalla Corte dei conti, che, di fatto, sancisce la nostra bancarotta, s’inserisce appieno nello scenario di perenne presentificazione in cui si muovono gli amministratori (il dissesto finanziario è sempre meglio farlo dichiarare da chi verrà). L’assenza di un progetto politico e l’ossessione per il loro immediato futuro, li pone, infatti, in una condizione di sudditanza rispetto ai vertici o ai semplici addetti delle strutture tecniche interne. E’ necessario l’appoggio dei tecnici per il proprio, personalissimo, futuro. E’ così che il non governo della cosa pubblica carica la collettività di ingenti costi finanziari e sociali riducendo, quasi azzerandoli, i margini di ogni azione amministrativa prossima.

In quest’abisso, però, la peggiocrazia potrebbe trovare degli ostacoli alla sua perpetuazione. La crisi finanziaria del Comune metterà, infatti, a rischio il finanziamento di molti piccoli privilegi che hanno alimentato il consenso sino a oggi. Se non ci sono incarichi da distribuire, se non è possibile favorire gli amici negli acquisti, nei piccoli lavori e nell’affidamento di servizi, a causa della necessità del contenimento della spesa, è probabile che il sostegno alla peggiocrazia venga meno. I due gruppi sociali che potrebbero essere, al tempo stesso, gli artefici e i primi beneficiari del cambiamento sono i giovani e le donne. I primi potrebbero essere motivati dal fatto di trovarsi a pagare il conto di un banchetto a cui non hanno partecipato. D’altronde, sanno di non poter più godere dei privilegi dei loro padri (a parte qualche giovane dalle tradizioni irriducibili). Lo stesso vale per le donne. La loro presenza non può più essere accettata come elemento decorativo. Grazie alle “quote rosa” potranno rivendicare con forza i loro diritti, ed entrare nel merito dei problemi. Le donne mostrano spesso più coraggio e capacità realizzative degli uomini. Entrambi, i giovani e le donne, hanno ben poco da perdere e tanto da guadagnare da un cambiamento di rotta. Proprio loro potrebbero spezzare il circolo vizioso del clientelismo che genera impoverimento e barbarie civile.