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Gisella Torrisi

Catania non vuole più promesse

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di Gisella Torrisi

La Sicilia abbandonata al degrado viene mostrata raramente, non ci vuole un acuto osservatore per comprendere cosa succede per le sue strade. C’è chi la abita e non ne sa niente, c’è chi la abita e sa di che male sta morendo, c’è chi la abita come un figlio meschino e tira ancora latte al seno ormai stanco e privo di nutrimento. Questa è la mia amata terra, ricca di antichità oltre che bellezza tanto quanto dolore. Un enorme corpo di dolore si nutre di insofferenza, di vigliaccheria, di un progresso sterile dichiaratamente europeo.

Chi viaggia per visitarla nota una netta distinzione trai vari capoluoghi e a far davvero paura è quell’ombra di morte che si aggira sulla bellissima e regale Catania. Catania, una città che fa concorrenza a tante mete turistiche e lasciata senza aiuto, mentre vive la sua vecchiaia anticipata. Questo è lo sguardo che in una diretta Matrix lancia alla mia città.

Corso Sicilia (zona centralissima di Catania) è uno sfondo fatto di grandi palazzi di cemento e pietruzze grigie messe dal comune a coprirne le aiuole, dove per lo più sono ubicate le banche. E’ stato deciso così, era l’inizio del boom economico quando il quartiere San Berillo fu costretto con coercizione a fare posto al capitale. Erano gli anni ottanta quando si tagliò un nastro di inaugurazione per un futuro grigio, cementificato e privo di rispetto verso l’identità di una città storica. Ghettizzati, evitati, sfruttati, imbastarditi i suoi abitanti hanno fatto quello che in qualsiasi processo urbanizzativo di isolamento si può fare: essere una società dentro la società. Ma di quale società parliamo?

Non si sente più alcun senso di appartenenza, siamo soli e grigi come il Corso Sicilia e tutti a dire che non è vero. Mentre passi da lì e ti ritrovi di fronte alla realtà: uomini che vivono in strada e dal freddo si pisciano addosso e si ha persino paura di quei poveretti là fuori. Il problema sono loro, sono i trans, sono le prostitute nigeriane, sono i marocchini, sono quelli delle bancarelle della fiera, no? Il problema sono sempre le mosche che ci ronzano intorno e non lo schifo che portiamo dentro. Il problema sono sempre gli altri ed è questo che ci rende privi di appartenenza. Aspettiamo un padre che ci prenda per le spalle e ci butti finalmente in una qualsiasi vita.

Non abbiamo mai imparato a stare senza catene. Non abbiamo mai imparato a dare valore alle nostre scelte, perché “tanto non cambia nulla”.

Domani si voterà per l’Italia? Domani andremo a votare con il cuore illuso, disilluso, dolorante o già prenotato a qualche stupida promessa.

Catania non vuole più promesse, la Sicilia non se ne fa niente del futuro, l’Italia ha bisogno di un presente e non solo, ha bisogno di noi presenti e vigili.

A proposito del triangolo della morte. Ai miei paesi: Adrano, Biancavilla, Paternò.

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di Gisella Torrisi

Cosa posso fare? Me lo chiedo da sempre, me lo chiedo ogni giorno appena sveglia. Se prima la rabbia, l’indignazione e la speranza erano il solo motore di reazione contro questa nera realtà, ora mi rendo conto che era un modo di agire sbagliato in cui si lascia spazio a quel Giudice severo che umilia la Vittima impaurita; è tutto un processo narcisistico dove si vede la perfezione dei principi opprimere la mente che invece vorrebbe solo imparare. È questa l’educazione che ci hanno dato: punizione, repressione, catalogazione ma tutto ciò è vecchio, limitante, sofferente e assassino.

E’ giusto credere nella lealtà, nel progresso, nella legalità, nell’imprenditoria dei principi del “buon padre di famiglia”… non continuo, questa lista perbenista la conosciamo in tanti. Sono stanca di sentirmi dire: lottiamo contro, lottiamo per, lottiamo… quanta ipocrisia? Il Giudice interiore si diverte a seviziarci e allora? Sensi di colpa a sottrarci il sonno.

È giusto, invece, credere che sbagliare oggi è l’unico sintomo di autenticità. Torniamo liberi. Sbagliamo e rendiamocene conto, lottiamo contro i nostri schemi mentali; liberiamo queste povere membra piegate. Volete veramente sprecare questa vita e morire di paura? Morire con la paura di essere stuprata, morire con la paura di essere rapinato, morire con la paura di non trovare lavoro; magari non avverrà mai ma in tanto questi schemi mentali ci portano a fare scelte che allo Stato piacciono tanto. Perché poi scendiamo senza far rumore in compromessi che per la maggior parte di noi sono normalità. “Non andrò a lavorare in quel quartiere, troppi immigranti. (Mi stuprano, derubano e chissà cos’altro.)” “Sì, non pubblicherò questo articolo perché mi hanno già avvisato e se perdo questo lavoro non ne troverò di certo un altro migliore.” “Va bene, do l’esame all’università senza neanche esprimere il mio parere sennò non lo convalido con il voto che vorrebbero i miei.” “No, non mi avvicino al piccolo bambino rumeno che è caduto per strada, potrebbe essere una trappola.” “Sono contro il femminicidio. Oh mio dio guarda quella che sta con un uomo sposato! Per alcune servirebbe una buona scarica di botte.”

Quante volte abbiamo sentito queste frasi? Quante volte le abbiamo pronunciate? Quante volte ci siamo solo arrabbiati? Di paura soffriamo tutti. Lavoriamo per rendere la nostra vita sicura e facciamo sempre la scelta più sicura. Lavoriamo, paghiamo le tasse, mettiamo al mondo figli e gli passiamo la solita vecchia e fallace morale: sii prudente. No, figlio mio, sii folle. Senti, vivi, ascolta e non fermarti davanti le apparenze. Prendi la tua rabbia e trasformala in energia positiva, tu puoi essere quello che vuoi e quello che vuoi è dato da ciò che senti, da ciò che vorresti fare. Non urlare contro a chi ti dice che gli immigrati ci portano via il lavoro, non difendere le tue idee con la loro stessa arma. Sorridi, fai esempi, cerca il dialogo ma soprattutto scopri quale paura ci sia dietro chi ti parla con quel solito volto teso, severo.

Sbagliare significa esperire la realtà per crescere, chi non sbaglia non cresce. Oggi e colui che giudica e continua a subire il giudizio rimane in un vicolo cieco e non si accorge di stare solo fermo in una strada inerte e senza sbocco. Ci vogliono a destra, a sinistra, pro e contro, al sud e al nord, ci vogliono giusti e arrabbiati, ci vogliono contro gli immigranti, contro gli uomini per essere donne, suddivisori di violenze per catalogo. Oggi si parlerà di stupro o di rapina? Quale notizia serve passare? Ricordare che la Mafia si trova in piccoli paesi di provincia? Sì, parliamo di quei relitti di società che si trovano in quella brutta provincia Catanese

che versa lacrime e sogni, che vuole un po’ di pace, che cerca una nuova rinascita.

Ma non lo vedete che siamo tutti brutti, spaventati, cattivi come dei bambini lasciati a bocca aperta? Che litigano fra di loro e non contro chi li opprime? Che parliamo con occhi pieni di pianto e digrignamo un volto di un adulto mai svezzato? Ma non lo vedete che abbiamo costruito un sistema che non si riesce a fermare? Più stiamo dentro questo schema di paura e più lui prende le nostre energie e gira e ci rigira e non si ferma.

Scendiamo da questo treno, partiamo dall’accettarci, partiamo dall’ascolto. ASCOLTIAMOCI. Io non sono solo contro la Mafia, sono in primis contro lo Stato. Questo Stato vecchio pieno di una morale apparente e con un vuoto dentro a divorarne l’esistenza. Una realtà fatta di finti adulti che rimproverano con volti grigi.

Io sono per uno Stato nuovo, quello che forse ancora non riuscite a vedere ma che si sta schiudendo, uno Stato consapevole e che ha smesso di rimproverarsi e ha iniziato a sorridersi e dire: abbiamo provato così e non ci siamo riusciti, proviamo così e vediamo se questa è la nostra strada, sperimentiamo a favore di questa logicità d’azione, sperimentiamo a favore della libertà.

Io non mi schiero contro i miei paesi, io mi schiero contro quella parte di me egoista che si vuol sentire migliore, io mi schiero contro quella parte di me qualunquista che si siede a tavola e fa la sua morale, io mi schiero contro il vecchio modo di pensare. Io l’abbraccio e gli dico: basta stare dalla parte della ragione, è ora di stare dalla parte del Vero. Sapete benissimo cosa fa la democrazia informativa, lo sappiamo tutti: mette i poveri contro i poveri. Io non credo alla tv, l’ho spenta a quattordici anni e se oggi mi capita di vederla capisco che quello è spettacolo, è business e non solo: non è la mia realtà. Quella realtà che ha bisogno di persone competenti, positive, dinamiche e che non hanno paura.

Io rivoglio il mio potere personale e me lo riprendo giorno dopo giorno, guerra dopo guerra. E voi cosa aspettate? Spero che i miei fratelli là fuori, quelli “bravi” della parrocchia, quelli stanchi, quelli che “penso a me tanto non cambia niente”, quelli che “è colpa dei genitori”, quelli che “i giovani d’oggi”, quelli brutti della “vanedda”, quelli in carcere, quelli malati, quelli umiliati, quelli che “guarda quello”, quelli costretti lontani dalla sua terra, quelli “pentiti”, quelli che si pentiranno, quelli che sognano, quelli che ci credono… spero che tutti noi possiamo riavere questa grande capacità di scelta:

cantare fuori dal coro, tornare al Vero e comprendere il Falso.

Questo non è un triangolo di morte, questo è un triangolo di Rinascita se solo tu ci credi. Io e tanti altri ci crediamo, Symmachia ci crede.

Sputate al Re!

in Gisella Torrisi di

Mi guardo attorno ed è domenica mattina, a colazione io e il babbo ascoltiamo Strauss, compositore viennese che visse a cavallo dell’800 ma non è delle sue sinfonie, le quali sembrano ragnatele di luce che si diramano negli arti, che voglio discutere. Una mia amica, subito dopo la colazione, mi chiede se ricordo a quale canzone assomigli la nuova di J-ax e Fedez; sì proprio così. Le pare di ricordare un vecchio motivo di una canzone degli ex articolo 31, di cui Alessandro Aleotti (in arte J-ax) era la voce e l’anima. Io cerco di ascoltarla, ma proprio non ci riesco.

Premetto che da ragazzina per me J-Ax era un vero artista, uno di quei ragazzi pieni di sogni che venivano dalle strade. Loro sanno cos’è la vita, l’hanno affrontata chissà quante volte. Anch’io, anche la mia generazione, proviene dalle strade e con ciò non voglio dire che non avevamo una casa, un tetto sicuro o una famiglia ad aiutarci quando ci mettevamo nei guai. Venire dalle strade (e non dalla strada) significa che tu hai giocato, vissuto, lottato, sognato, imparato fuori, urlato, cantato… ti sei ribellato… a contatto con la tua realtà, a contatto con il tuo spazio là fuori: il tuo quartiere. Ricordo le ginocchia sbucciate, le biciclette investite, le prime storie da scrivere, la voglia di poter sbagliare e capire da soli cos’è giusto e cosa no.

Oggi per strada ci sono solo pochi ragazzini, quasi tutti hanno già in mano uno smartphone e aspettano, chissà cosa poi. Noi, noi non aspettavamo nulla, avevamo premura di conoscere, di correre, c’era fortunatamente ancora qualcuno che ci insegnava a ribellarci e non perché andava di moda l’alternativo, anzi! Oggi va di moda essere alternativi, vestirsi come straccioni ma con roba firmata che costa un botto, ed io che pensavo che era per riuscire a spendere i soldi in altro (cd, libri, cinema, teatro, concerti, sports, hobbies), insomma per nutrirsi quell’accumulo cerebrale in testa (o vedi anche: cervello).

Ricordo di aver passato tutta la mia adolescenza a provocare. “A scuola non ti puoi truccare” e andavo imbrattandomi di nero come Marylin Manson perché volevo che tutti vedessero le mie ombre e non solo la mia luce. “A scuola devi far attenzione e ricordarti di fare quello che ti diciamo” e ascoltavo il canto del vento dalla finestra, pensando a cosa intavolare a casa, a come finire la storia che già avevo in mano. “A scuola devi ascoltare l’insegnate” e le sue frustrazioni, di insegnanti là fuori ne ho conosciuti davvero pochissimi. “A scuola devi dare il massimo” e a casa approfondivo la vita, le storie, cercavo la verità.

Quando incontro con lo sguardo un ragazzino con il cuore in mano e non con il telefonino (lo si riconosce dalla schiena dritta ed il sorriso non ancora plastificato in faccia), sorrido anch’io e credo che anche se la società voglia incanalarci in un modo virtuale, artificiale, fasullo… là fuori, di notte, ci sarà comunque un ribelle a tenere accesa la fiamma, per tutti. Ci sarà sempre un angelo a cui brucia lo stomaco per la paura e che deve continuare a perseverare per se stesso, perché sa che dimostrare qualcosa ai professori, ai genitori, ai social o chissà a chi altri… non serve a nulla e non ne rimarrà nulla… ma se invece si concentra su di sé, se dimostra a se stesso di essere pronto a superare qualsiasi barriera imposta e allarga sempre più i suoi orizzonti… beh, allora, avrà scelto la strada più dura, in cui non si vince niente, solo tempo e libertà. Vi pare poco?

Oggi ci hanno tolto il tempo, il pensare, il poter essere anche sfumature. Ci chiedono di credere, ma a cosa? Se ignoriamo il nostro punto di partenza… il quartiere… come possiamo poi alzarci un giorno e cambiare la nostra Sicilia?

Ho smesso di guardare la televisione in terza media (seguivo raramente solo alcuni programmi musicali) e ringrazio quella ragazzina ribelle per avermi dato tutto il tempo per pensare da me. Per sognare, per studiare davvero, per conoscere tantissime persone, per essere stata tante individualità e nemmeno una, per avermi fatto imparare che il cuore ti salva sempre. Tornando a J-Ax, che per me alle medie era un vero, l’antidoto contro i Blue (gruppo lagnosissimo e commerciatissimo), tornando a quella musica penso: c’è chi ha venduto l’anima al quel diavolo di usa e getta televisivo, vedi Morgan (Bluvertigo) o ancora Manuel Agnelli (Afterhours)… ma che hanno lasciato comunque un gran segno nella vita di una bambina, ve lo mostro:

“Quella tv, conosco sempre più gente che la spegne… c’era una storia in mezzo ai libri studiati la mia generazione saprà presto qual è, che piaceva tanto ai miei antenati e piace tanto tanto anche a me… sputate al re!”

La canzone si ispirò sicuramente alla favola I vestiti nuovi dell’imperatore (favola danese a cui io ero affezionata tantissimo) scritta da Hans Christian Andersen (che fa ancora parte della mia infanzia).

E voi quale cose ricordate della vostra? I sogni sono quelli che non moriranno mai. Concludo con una citazione di Andersen, che sia per ognuno un punto di partenza verso il risveglio della propria intelligenza:

“Non importa che sia nato in un recinto d’anatre: l’importante è essere uscito da un uovo di cigno.”

Questo articolo lo dedico a quei ragazzi a cui è stato proibito il conoscere! Ricordate sempre: chi cerca, trova! Chi scava dentro sarà libero!

 

Sulla strada dell’identità sociale; storia di un cammino individuale

in Biancavilla/Gisella Torrisi/News di

Il 23 aprile, per la Giornata mondiale del Libro e del Diritto d’Autore, la biblioteca comunale “Gerardo Sangiorgio” di Biancavilla diventa salotto letterario, ma anche palcoscenico e nonché cuore pulsante di un riscatto culturale che va dalle pagine di un libro fino alle ali che librano la mente.

Chi legge vola! E’ questo lo slogan con cui inizia la giornata, con un innovativo flash mob letterario.

Sono le ore 18:00 e nel cortile un sole antico illumina il pomeriggio che si schiude davanti alle parole dei primi presenti ,tra cui dei poeti del paese. La dott.ssa Margherita Messina, consulente alla cultura, in un breve colloquio, pieno di entusiasmo, racconta le attività svoltesi durante la mattinata, in cui i protagonisti principali sono stati i ragazzi e gli insegnanti dell’istituto Branchina di Adrano e dei licei di Scienze Umane ed Industriale di Biancavilla. Vari momenti si sono susseguiti: dalle visite narrate alla rappresentazione di grandi classici con Pippo Ventura, con la proiezione finale di un video realizzato dai ragazzi del liceo, con l’aiuto della prof.ssa Giuseppina Rasà, dal titolo “I nemici dei libri”, per ricordare che spesso il potere dell’informazione (soprattutto oggi, aggiungerei) veicola la verità per nasconderla, occultandone così gli scritti di coloro che vengono considerati scomodi, nel video si ricordano ad esempio: Peppino impastato,Giuseppe Fava e altri ancora. La dott.ssa Messina ringrazia anche la prof.ssa Elsa Sangiorgio e la consulente all’istruzione Rosanna Bonanno, e aggiunge:

“ho deciso di chiedere a Cinzia Sciuto di essere presente in questo giorno, perché oltre al suo essere solare e emblema di sicilianità,è anche coinvolgente, e sono sicura che con il suo calore e la sua devozione alla cultura ci emozionerà.”

Sono le 18:45, classico quarto d’ora accademico, inizia l’incontro con l’autrice, esordisce facendo presente che non ha preparato alcuna scaletta e che leggendo, cantando e intrattenendosi con il pubblico costruirà lo spettacolo poetico-musicale.

Ecco il senso interiore di lettura: leggere è ricercarsi, dopo essere stati scritti da colore che, in stati di coscienza elevata, hanno visto la propria strada;

cancia lu ventu, come direbbe la prima silloge poetica che contiene anche un cd “Nel segno di Rosa” (tradizioni etnomusicali) della cantautrice Cinzia Sciuto, ospite d’onore in questo giorno di introspezione e memoria. Tre sono le dimensioni che si avvolgeranno: l’io dell’autore presente, l’io degli autori passati (dei canti di tradizione siciliana) e l’io degli ascoltatori.

Ricuciamo la scaletta della serata, riportando alcuni versi dalla silloge di Cinzia Sciuto:

La prima poesia è l’omonima del libro; Cancia lu ventu ha un significa profondo che riguarda il viaggio in senso metafisico, all’interno della riscoperta di vivere non l’individualismo della nostra realtà psicologia, ma la consapevolezza di abitare una terra, che poi sarebbe: la terra, per Cinzia. Si sottolinea l’importanza di ritrovare il proprio cammino interiore, inoltre, in quei versi si legge l’amore di fiamme che Cinzia ha per la propria isola

Cancia lu ventu,
e si porta d’appressu la me vita
pp’abbuffuniari la morte.

Morte in riferimento all’anima, spesa senza aver trovato la chiave per quella porta ,che una volta aperta dà passione e quiete, in quegli alti e bassi mai stonati.

La seconda poesia che segue è Petra dopu petra ed è un je accuse verso la criminalità e verso quella politica che costringe ancora la Sicilia in ginocchio.

Le emozioni non si possono vedere, ma insieme all’autrice siamo riusciti a toccarle. Quando Cinzia iniziò a narrare del pavimento in cui i lavoratori stagionali, per vendemmia o per la raccolta delle olive, appoggiavano le calde membra innamorate, anche noi abbiamo sentito lo stesso gelo che contrastava il rossore della nostra guancia. Pensando all’innamorata che dormiva sullo stesso pavimento, ma in un angolo diverso del magazzino che li ospitava, si cantava, la seconda canzone non in scaletta: mi votu e mi rivoto. All’improvviso eccoci nei campi, col sole alto a mezzogiorno, portare sacchi pesanti sulla schiena e dare il nostro canto in preghiera a Sant’Agata. Dopo questo secondo canto, Cinzia decide di cantare una dolce ninna nanna che coinvolge il pubblico in maniera più diretta, oltre ad emozionarlo: La Siminzina. Tutti i presenti hanno occhi commossi e felici, forse perché sono riusciti a tornare bambini.

Gli interventi del pubblico si fanno caldi, tutti hanno capito di essere in viaggio, Cinzia si dimostra un’ottima operatrice turistica, ops, onirica. Segue un’altra poesia: t’aspittava, i versi che la concludono credo che non abbiano bisogno di essere spiegati.

Cci nciumai vesti novi all’anima nuda,
e t’accuminciai a circari
ppi li vaneddi spirduti di lu cori.

13081986_10206001810473634_981329707_nQuella rabbia che troviamo nelle prime poesie lascia spazio all’azione, si trasforma in energia positiva e la porta a cambiare se stessa, giorno dopo giorno, per riuscire a cambiare la sua amata terra. Non serve lamentarsi, o ancora più stupidamente, pensare che nulla possa cambiare ed ecco altre due poesie: figghi e fermiti. La prima riconosce che non tutti hanno quell’amore che serve a cambiare la Sicilia e non è vero che tutti i figli amano la propria madre, la propria terra. La maggioranza vive una vita frenetica, la società ci offre zero rimedi e troppi inganni, il secondo testo si rivolge dunque a quella maggioranza e con un imperativo categorico (direbbe Kant) li obbliga quasi a fermarsi a riflettere dopo avergli messo davanti bellezza e dolore.

Seguirà ancora u cantu di lu carrittieri, che con il suo carretto siciliano ci condurrà verso un altro testo poetico: la differenza, qui il vento è cambiato, la consapevolezza è ormai matura:

Sugnu pirchì vogghiu essiri,
non pozzu non essiri

A conclusione della serata altri brani musicali; riflessioni sulla libertà fisica e di pensierio, sulla cultura spesso troppo repressiva, sulla storia degli immigrati siciliani, e in conclusione, nel segno di Rosa Balistrieri: cu ti lu dissi, il canto popolare più conosciuto che tutta la sala di rappresentanza della Biblioteca comunale di Biancavilla ha… la lalalala lalalala.

Comincia come Rosa
da corda a Cinzia in *lam
per concludersi in *min
accordi accordati prima,
lei, viva, passa dal cuore.

A Cinzia Sciuto, Gisella Torrisi.

Gisella Torrisi

Addio a Luigia Ferro, poetessa di 25 anni

in Gisella Torrisi/News/Notizie dal territorio di

Ieri, 25 aprile 2016, si è suicidata la poetessa gelese Luigia Ferro di venticinque anni. E’ stata trovata morta, per voluta impiccagione, in una villetta zona balneare che confina con Butera, a Desusino. Il 19 giugno avrebbe compiuto 26 anni. L’artista era una studentessa universitaria, appassionata di letteratura, filosofia, astrologia e storia dell’esoterismo. Domani si svolgeranno i funerali  presso la chiesa del Carmelo, a Gela, ore 15:00. Non ci sono altre notizie. Ne diamo il doloroso annuncio, gli amici poeti, che la ricorderanno sempre per la sua innata intelligenza, eleganza, bellezza e luminosità. La sua anima vivrà in eterno in ogni suo verso ed in qualsiasi angolo del nostro sognare. Condividiamo, in sua memoria, una delle sue più belle poesie:

 

QUADRATO NUMERO 38

Con il guanto liscio e inossidabile
della mano tua forte e materna
ti ho visto crearmi.

Di parole in preghiera
la favola serale dei baci
mi hai lasciato fame del tuo seno.

Nel corpo mio: ormai di donna
fetale al fianco tuo
cullato dagli Ave, trovo la pace.

Gli occhi ridenti, luminati di sacro dolore
m’accendano, al pensarli,
di orgoglio adorante.

Poco importa se il tuo tramonto
non lo misuro in passi,
la mente inganna: già mi manchi.

La grazia dell’omonima
stendardo al mio incedere
non sono degna ma benedetta.

Luigia Ferro

 

Gisella Torrisi

 

 

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