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Homines

Liliana Segre ricorda Gerardo Sangiorgio: “diffuse sapere condiviso e critico”

in Controcultura/Homines di

“Gerardo Sangiorgio seppe resistere al ricatto di aderire alla pseudo-repubblica di Salò, covo di nazifascisti e antisemiti, pagando di persona con l’internamento nei campi di concentramento hitleriani, ma al ritorno passò la sua vita nell’insegnamento e coltivando la memoria a favore di intere generazioni di giovani”.

Così, la senatrice a vita Liliana Segre ricorda la figura dell’indimenticato professore di Biancavilla, Gerardo Sangiorgio, prigioniero di guerra numero 102883/IIA nei lager di Neubrandenburg e di Bonn/Duisdorf, scampato ai nazifascisti e poi rientrato a Biancavilla dove è stato saggio e discreto educatore di tanti giovani che hanno avuto l’opportunità di formarsi e di cogliere tratti di un’umanità grande, sopravvissuta agli orrori nazifascisti.

Alla sua figura, lunedì 28 gennaio, verrà intitolata l’Aula Docenti dell’Istituto Tecnico Tecnologico “Rapisardi” di Biancavilla, su iniziativa del dirigente scolastico, degli insegnanti e degli studenti. Proprio l’ex “Industriale” è stato l’istituto in cui il professore cattolico Gerardo Sangiorgio ha svolto gli ultimi anni di servizio scolastico, tra il 1974 e il 1978. Da qui, il messaggio di Liliana Segre agli studenti per sottolineare l’importanza della memoria.

Straordinaria figura dispensatrice di ideali preziosi e valori irrinunciabili che dovrebbero tornare ad essere la bussola per il nostro Paese, Segre ha sperimentato sulla sua pelle le persecuzioni razziali nazifasciste ed è sopravvissuta alle atrocità dei campi di concentramento, in cui è stata deportata, insieme al padre, all’età di appena 8 anni. Il binario 21 di Milano, da cui partivano i vagoni per i lager, oggi è meta di tantissimi studenti che rifiutano la dilagante indifferenza e l’oscurità culturale del momento. Il suo instancabile impegno per le giovani generazioni, è stato riconosciuto dal lungimirante Capo dello Stato Sergio Mattarella che, appena un anno fa, le ha conferito la massima onorificenza per un cittadino italiano: il titolo a vita di Senatore della Repubblica.

 

“Ricordo ancora quando nel 1938 ascoltai per radio la notizia della promulgazione delle leggi razziali. – scrive Liliana Segre agli studenti di Biancavilla – Per me fu un trauma realizzare che ero stata “espulsa” dalla scuola. Perché? Che cosa avevo fatto? Mi fu spiegato che “si trattava di una legge che aveva stabilito che tutti gli ebrei dovessero essere ‘espulsi’ dalla scuola e da molte altre attività”. Ma che sistema è quello in cui una “legge” può stabilire una cosa del genere?” Interrogativi che rimangono scolpiti nella mente della senatrice a vita e che, forse, difficilmente, potranno mai avere una compiuta ed esaustiva risposta.

Da qui l’appello di seguire il modello del professore Sangiorgio: “solo un sapere condiviso e critico mette nelle condizioni di evitare la ricaduta in certi errori ed orrori. E proprio in quanto apre la mente al valore autentico di termini come “tolleranza”, “accoglienza”, “interculturalità”, “solidarietà” ecc. Tanto più che oggi in Europa siamo costretti ad assistere a sempre nuovi episodi di antisemitismo, di razzismo, di xenofobia. A tutto questo bisogna reagire, senza mai abbassare la guardia. Reagire certo con la denuncia, ma appunto anche con la cultura e lo studio. Essi costituiscono infatti, oggi e sempre, l’estremo antemurale contro coloro che hanno la forza ma non la ragione”.

Parole e considerazioni sempre attuali anche perché “una legge razzista presuppone sempre un ambiente razzista. Presuppone cioè un regime violento e repressivo, ma anche lo svilupparsi di un senso comune alienato che porta ad accettare provvedimenti in altri contesti inconcepibili. Anche le ‘persone normali’ sono responsabili delle leggi razziste, perché sono responsabili di quei comportamenti asociali, discriminatori, offensivi, di quella connivenza e indifferenza rispetto alla violenza”.

Come la Segre, anche Gerardo Sangiorgio è stato “testimone diretto” della shoah. Lui che non cedette alla promessa della libertà in cambio della sua adesione alla Repubblica fascista di Salò e, per questo, fu catturato dai tedeschi a Parma, quando la caserma, in cui prestava servizio, fu letteralmente invasa dai nazisti. Fu ammassato in treni in condizioni infime: “un solo sportellino per prendere aria e gettare gli escrementi dopo giorni di viaggio”, sottolinea il figlio, Placido Antonio Sangiorgio che, qualche anno fa, fece dono al nostro giornale Symmachia di una sua riflessione.

“Come potevano – si chiedeva fino all’ultimo Gerardo Sangiorgio – i tedeschi che tanto amavano i cani, o che avevano tanta cura per gli uccelli, lasciare morire così gli uomini. Così crudeli e dal cuore di pietra di fronte a un principio universale, elementare”.

Infatti, è in quei luoghi senza umanità, i lager, in cui Sangiorgio sopporta freddo, fame, umiliazioni (dagli sputi allo spegnere le cicche delle sigarette sulla pelle delle persone).

Ad accompagnarlo, durante tutta la sua esperienza, la fede in Dio, più forte di ogni cosa. Spesso, nel luogo in cui Sangiorgio trascorreva le sue giornate, una mano lasciava scendere un contenitore della spazzatura: dentro qualche rimasuglio di cibo, un po’ di pane, un po’ di vita.

Finita la guerra, riuscì a tornare a casa: per giorni, senza sosta, ad attenderlo alla fermata della littorina c’era suo padre. Completò gli studi e si dedicò all’insegnamento. Dopo anni, ricevette un encomio come “Combattente per la Libertà d’Italia”, a firma del presidente Pertini l’orgoglio di non essere stato un “collaborazionista”.

“Mi sono chiesto più volte – dice il figlio di Gerardo Sangiorgio, Placido Antonio – cosa avrebbe pensato mio padre, se avesse saputo che un giorno la sua vita, o meglio la scelta che pregiudicò per sempre “gli anni più belli”, avesse riscosso tanta curiosità e interesse nelle aule di scuola, proprio tra i ragazzi, che alcuni decenni prima – e per generazioni intere -, aveva profondamente amato e a cui aveva voluto consegnare una lezione profonda e sofferta di vita”.

 

TESTO DELLA LETTERA DI LILIANA SEGRE AGLI STUDENTI DI BIANCAVILLA

 

 

 

 

 

Pietro Grasso, l’ex falegname di Adrano oggi creatore di violini. La sua storia al Tg1

in Homines di

di Paola D’Amico

Sognava di costruire un violino da quando era bambino. È diventato liutaio a ottant’anni suonati. I suoi strumenti sono piccoli capolavori. Alcuni sul dorso sono decorati con intarsi raffinati. Nel laboratorio ricavato nel grande scantinato di quello che un tempo è stata la sua fabbrica di mobili, arrivano con il passaparola artisti italiani e stranieri. Non scherza quando, strizzando gli occhi azzurri e vivaci, dice: «Roba unica al mondo. Sfido tutti». Cresciuto in una famiglia di falegnami da tre generazioni, Pietro Grasso a sedici anni prese il treno ad Adrano, il suo paese alle falde dell’Etna in Sicilia, diretto a Cantù, il «paradiso» dei mobili. Si fermò prima, a Meda, e qui nel regno dell’ebanisteria, forgiando mobili intagliati in stile Luigi XV, da garzone di bottega è diventato imprenditore.

Ha avuto successo Pietro Grasso, oggi 86enne. Ha cresciuto e sistemato cinque figli, e quindici anni fa s’è finalmente ritirato ad Andora, in Liguria, da pensionato, pensando di godersi la barca, la casetta al mare e il tempo libero. Macché. «Un giorno in un negozio d’antiquariato ho visto due vecchi violini — racconta —. Sono entrato e li ho comprati. Da ragazzino, prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale che ci rese poveri, andavo a lezione di violino e in modo rudimentale mi ero costruito una specie di strumento, con i pezzi che mi aveva regalato un anziano liutaio del paese. Avevo e mi è rimasta una passione smisurata per il suono».

Quel giorno ad Andora, Pietro, arrivato a casa, smonta i due strumenti poi va a bussare alla porta di un liutaio genovese, Pio Pontaneri, deciso a «capire tutto dei violini». La sua è una scuola accelerata. In due mesi, tempestando di domande il maestro, Pietro comincia la nuova vita. «Mi sono mangiato una fortuna — racconta —. Perché, naturalmente, non tutte le ciambelle escono con il buco. Ma ci sono riuscito, ieri è venuta da me il primo violino di una orchestra del Kazakistan».

Lavora giorno e notte quando inizia un nuovo strumento. È consapevole che qualcuno delle grandi scuole di liuteria storcerà il naso, perché Pietro fa di testa sua e non ha timori a dirlo. «Se di qualcosa dobbiamo discutere, discutiamo del suono». Il suo è perfetto. Tratta i legni destinati a trasformarsi in strumenti i musicali come trattava quelli per i suoi mobili intarsiati. Ha un trucco per uccidere i parassiti, per asciugare le colle, per «purificare» il legno togliendo tracce di ferro, rame e far cantare quei pezzi di materia prima non ancora forgiati. Dove vuole arrivare Pietro? «Me lo sono chiesto più volte, penso di voler arrivare a far riconoscere questi strumenti. Non seguo la scuola cremonese, persino la forma che uso io è tutta un’altra cosa. Ma i tempi cambiano, bisogna migliorare. E sperimentare».

LA SUA STORIA AL TG1: ECCO IL SERVIZIO

Symmachia vi propone il servizio realizzato dal Tg1 e trasmesso nelle scorse settimane.

Benedetto Viaggio, un partigiano biancavillese in campo di concentramento.

in Homines di

di Nino Longo

Nel giorno della Memoria, vogliamo ricordare un biancavillese, Benedetto Viaggio (1904/1947), che su delazione di una spia fascista, a Genova, insieme ad altre 30 persone, fu arrestato e processato come terrorista dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato.
Dal processo uscì assolto per insufficienza di prove e purtuttavia fu inviato in un campo di concentramento a Bolzano, sotto la vigilanza delle SS tedesche, dove venne trattenuto dal 12 settembre 1944 al 29 aprile 1945, sottoposto a continue sevizie.
Fu liberato dai Partigiani e quindi divenne Presidente del Comitato di Liberazione Nazionale a Genova, con il delicato compito di liberare le istituzioni locali della presenza dei fascisti.
Morì qualche anno dopo in seguito alle sofferenze subite durante la prigionia nazista.

I Lager a casa: la tragedia del n. 102883/IIA

in Homines di

di Placido Antonio Sangiorgio*

Mi sono chiesto più volte cosa avrebbe pensato mio padre, se avesse saputo che un giorno la sua vita, o meglio la scelta che pregiudicò per sempre “gli anni più belli”, avesse riscosso tanta curiosità e interesse nelle aule di scuola, proprio tra i ragazzi, che alcuni decenni prima – e per generazioni intere -, aveva profondamente amato e a cui aveva voluto consegnare una lezione profonda e sofferta di vita.

Ricordo il suo rifuggire le prime file, il vivere discreto, alimentato da quella Fede che era stata sempre speranza. Soprattutto nei momenti più bui. Così, accoratamente, lo ricordò il prevosto Carmelo Maglia ai funerali: “Lo ricordo sempre in fondo, negli ultimi banchi, solo, in silenzio, a parlare con il suo Dio.”

Ma quanto difficile raccontare i lager, in una società che non comprende. Ripeteva “non si può capire”, “si perdeva l’umanità”.

Era stato un dramma per lui, pacifista convinto, che amava la letteratura e il cinema – soprattutto quello “all’aperto” che vedeva dal tetto di casa, ricordando ancora negli ultimi anni, con lucidità, il passaggio dal muto al sonoro in una pellicola con la sola frase “… perdonalo anche tu!”- essere chiamato alle armi improvvisamente.

Tutto ebbe inizio il 10 giugno 1940, quando si apprestava alla licenza liceale. I ritmi duri di un servizio militare non scelto, la partenza per la campagna di Grecia.

Eppure da questo dramma, a me bambino, non mancò mai di regalarmi qualche sorriso, quando raccontava del clima gelido dell’Italia del Nord e di una camicia stesa la sera e trovata ghiacciata l’indomani, «come una pala di baccalà», o di una esercitazione in cui si trovò scaraventato alla deriva sopra un motociclettone lanciato a tutta velocità.

Poi il racconto si faceva cupo, lucido e sempre sofferto, quando dalla gioia per l’anuncio dell’Armistio, dopo i giorni in cui aveva partecipato al Congresso eucaristico a Berceto, si passava alla sera dell’8 settembre 1943 a Parma. Il giorno in cui la bella lattaia gli aveva proposto la fuga, come a molti compagni di camerata, procurandogli gli abiti civili, di fronte a un nebuloso, nefasto, presagio, palesatosi già nel via vai convulso sulle scale della caserma. Ma lui ligio al dovere, responsabile, in linea col padre, maresciallo delle guardie reali, che non aveva mai osato chiedere per vie preferenziali un suo avvicinamento, rifiutò.

Seguirono le urla, il “Raus Raus”, col mitra tedesco alle spalle. E dopo non aver ceduto alla lusinga della libertà, in cambio del suo prestar fede a Salò, vennero i vagoni piombati, in condizioni indicibili: un solo sportellino per prendere aria e gettare gli escrementi dopo giorni di viaggio.

Il “mani in alto”, la perquisizione, le stellette e le mostrine strappatigli di dosso nel KZ di Neubrandenburg. E poi il rosario dell’ “Italiener Scheisse”, o “Badogliani”, “Traditori”, l’essere ricordati solo dalla “Patria” con una tazzina di riso una volta al mese, e solo nel primo periodo, quello  in cui era possibile far filtrare qualche cartolina a casa.

Il divenire numeri, non più Gerardo Sangiorgio, bensì il 102883/IIA. E per lui che conosceva il francese il trasferimento dopo un po’ in un altro lager a Bonn, tenuto soprattutto conto del gonfiore al viso per l’insufficiente alimentazione, travisato come abilità al lavoro (provvidenziale per la sua salvezza).

Qui teorie infinite di freddo,  fame, umiliazioni. Gli sputi tedeschi addosso, lo spegnergli le cicche delle sigarette a carne viva. E lui ancora fiero della sua scelta, ancora di fronte all’ultimo tentativo nazista: “Se passate con noi sarete liberi” (chissà quanto reale!?).

E come vita di tutti i giorni la corrente elettrica che attraversava il filo spinato, lo sguinzagliare i cani se qualcuno tentava la fuga. “Come potevano – si chiedeva fino all’ultimo – i tedeschi che tanto amavano i cani, o che avevano tanta cura per gli uccelli, lasciare morire così gli uomini. Così crudeli e dal cuore di pietra di fronte a un principio universale elementare.

L’allucinante condizione umana: c’era chi per eludere un solo turno di lavoro si mozzava un dito con una scure, e chi desiderava che qualcuno, in virtù delle precarie condizioni di salute, rimettesse per bere il vomito.

Intanto gli Americani erano alle porte: un bombardamento a tappeto sulla sua fabbrica, che  segnò la tragica fine di alcuni prigionieri. E lui trascinato all’indietro dai piedi, perchè ritenuto già morto da un commilitone in cerca di qualche vestito.

In quei giorni l’ulteriore tragedia di vedere rubata la sua cassetta, con i diari scritti anche con l’effimera luce di un fiammifero di notte, qualche numero de “L’amico della gioventù” e soprattutto le sigarette da lui accumulate che gli facevano ottenere, grazie al baratto con i russi in primis, qualche fettina sottilissima di pane o qualche buccia di patata: vale a dire la vita.

In quei giorni aveva assistito alla morte nel lager di Dessivo Pietro Mangerini. E per sottrarsi a quell’alienazione ripensava al suo Liceo, ripercorreva con la mente i versi della “Divina Commedia” e il meglio della produzione dei Poeti, e stringeva una reliquia di S. Gerardo, cucita all’interno della casacca con qualche altro santino.

Eppure ricordava anche un gesto di carità, rimasta sempre anonima: una mano che lasciava scendere con una cordicella un contenitore della spazzatura: dentro qualche rimasuglio di cibo, spesso u pezzettino di pane. E lui a vegliare, fin quando sicuro di non dare all’occhio poteva avvicinarsi alla pattumiera. Mano che non volle mai farsi associare a un viso. Un uomo o una donna? Mano che non volle mai un ringraziamento: il bene per il bene, a rischio della vita. Semplicemente.

Eppure era la Provvidenza, che lo voleva ancora vivo. I tedeschi in fuga avevano lasciato un deposito di pane intatto, nei pressi del tunnel che stavano scavando. Era sembrato a tutti di toccare il cielo con un dito. Mio padre giunse ultimo. Non c’era più nulla per lui. Poco dopo la constatazione che i nazisti avevano pensato bene di avvelenare ogni cosa. La sua delusione si era trasformata presto nella sua salvezza.

Intanto un quotidiano, quel 10 agosto del ’45, riportava la notizia del bombardamento di Nagasaki. Raggiunse così casa della zia Lucia (la parente che scrisse a Pio XII per interessarlo alla vicenda), facendosi annunciare da una vicina come un soldato che aveva notizie di suo nipote; seguirono le cure (la rialimentazione progressiva – tanti morirono al rientro per non aver saputo dosare il cibo -).

E poi il rientro a casa a Biancavilla, dove il padre per lunghi mesi lo aveva atteso ogni giorno alla fermata della Littorina, mentre la madre aveva fatto voto a S. Rita.

In casa, intanto, si era sovrapposta, per sempre, un’incisione della Madonna, portata dalla Germania, al quadro del Re.

Giunse la laurea, sudatissima e frutto di innumerevoli sacrifici. Atto “eroico”, com’ebbe a dire al padre un suo compagno di Liceo. E da qui la sua testimonianza sempre viva.

Ma qual’era l’insegnamento che a casa volle trasmetterci?

Si lasciava andare espressioni come “Mhei, per me era un sogno, un miraggio”, di fronte a un po’ di cibo che rimaneva nel piatto. Oppure imboccava me e mia sorella fino all’ultima stellina o pezzettino di pastina lasciata del piatto.

E per lui c’era spesso il pane raffermo che si bolliva anche con sola acqua. Non potevamo capirlo noi, viziati dalla società dello spreco, che aveva incoscientemente voltato pagina, che non aveva mai conosciuto la fame, che ci concedeva ben altra sorte e ci lusingava con la pubblicità del consumo.

Ma lui, segnato nell’intimo, non riusciva a vedere un film in cui la voce di un soldato tedesco affiorasse con la rabbia e la crudezza che aveva conosciuto.

Spesso nelle festività arrivava a casa la telefonata di Luigi Ciacciarelli, deportato insieme a lui, che gli confidò “Tu mi hai salvato la vita”, a seguito di una rischiosa intercessione che mio padre fece con un ufficiale che voleva punirlo, in lingua francese.

Forse ancor una volta riemergeva l’animo ragazzo di ventitrè anni che aveva trascritto una serie di canti del lager, per infrangere l’atrocità della condizione. Parole piene di speranza e dolore. Erano canzoni alimentate dall’antifascismo e dalla protesta per l’ingiustizia di ogni conflitto.

Non posso dimenticare l’orgoglio quando si vide recapitata una busta con dentro il diploma di “Combattente per la Libertà d’Italia” a firma di del presidente Pertini e del ministro Spadolini, in quanto internato “non collaborazionista”.  Forse il suo sacrificio era servito a qualcosa.

Non so quanto e se abbia gioito alla fine dell’89, alla notizia della riunificazione tedesca, chissà quali incubi gli  ritornarono in mente.

I figli sono sempre i meno indicati a parlare dei propri genitori. Troppo delicata e intima la prospettiva. Ma in taluni casi il quadro familiare ha diritto a una sua estensione, quando il significato incide aspetti più profondi e tocca corde universali.

Un’esistenza, dunque, quella di mio padre, che ha lasciato una traccia nella memoria, per l’affermazione silenziosa e decisa di una via giusta, difficile e solitaria: una scelta affrontata lucidamente, una professione di fede che non può prescindere dall’azione, dalla scelta, anche a rischio del bene più grande. Una lezione.

*La testimonianza dell’amico Dino Sangiorgio è stata pubblicata, negli scorsi anni, nella nostra testata giornalistica cartacea.

Girolamo Rosano, il fresco volto della pace

in Cultura/Homines di

Federico Laudani, già sindaco di Adrano, dirigente del Partito Comunista
Federico Laudani, già sindaco di Adrano, dirigente del Partito Comunista

In occasione del 60° anniversario della morte del giovane Girolamo Rosano (17 gennaio 1951), abbiamo incontrato Federico Laudani, che ha vissuto in prima persona i fatti che portarono alla morte di Girolamo, caduto sotto i suoi occhi.

 “Sono stato un attivista del Pci”, si definisce così Federico Laudani, vetusto Adranita dall’aspetto sobrio, pronto al dialogo ed ebbro di storia.

É stato sindaco di Adrano dal 1969 al 1974; ci parla della sua giunta composta da due prestigiosi ex-sindaci di Adrano, il dott. Salanitro e l’avv. Pietro Maccarrone. Erano i tempi in cui il Pci ad Adrano contava tre sezioni: Curiel, Gramsci e Rosano; di quest’ultima Laudani fu segretario sin dal 1956, anno in cui il partito comunista vinse le elezioni col sistema maggioritario, poiché Adrano non superava ancora i trentamila abitanti: era l’Adrano del dopoguerra, della Prima Repubblica…

Nel 1951 in che situazione versava Adrano? Ci furono degli scioperi…

Nel 1951 l’Italia è una nazione prevalentemente agricola, specialmente il meridione dove ci furono lotte terribili per la conquista della terra.

E Rosano ne faceva parte?

Certo! Rosano era un giovane battagliero e partecipò anche alla manifestazione per la pace contro il paventato pericolo della guerra in Corea. L’Italia faceva parte del “patto atlantico” e ai giovani della classe 1928 arrivarono le cosiddette “cartoline rosa”di preavviso per tenersi pronti alla partenza; si mise in atto una mobilitazione popolare che può definirsi spontanea e che vide l’impegno di molti attivisti del Pci; ricordo Pasquale Burzillà, Nicola Palermo, Salvatore Polizzi…

Secondo lei, quel giorno perché la polizia sparò sui manifestanti?

Io posso raccontare solo quello che ho vissuto: Scelba, feroce anticomunista, era ministro degli interni; quel giorno la Polizia, con le autoblindo, divise il paese in due impedendo di attraversare sia la via Garibaldi, sia la via Roma. Gli agenti facevano, infatti, la spola tra piazza Sant’Agostino ed il Belvedere. Imboccai la via SS. Cristo per attraversare il breve tratto di via Garibaldi e così raggiungere la via Viaggio; in piazza Genova incontrai mia madre con in braccio mio figlio, che allora aveva solo pochi mesi, i cui occhi bruciavano a causa dei lacrimogeni. Mi premurai di bagnare un fazzoletto nella fontana adiacente, ormai inesistente, così da alleviare l’effetto dei gas. A quel punto, Girolamo Rosano in testa, seguito da me ed altri due giovani (tali Caruso e Santangelo) decidemmo di andare a controllare se la celere stesse continuando nella sua azione repressiva. Giunti all’angolo tra via De Giovanni e via Garibaldi vedemmo cadere Girolamo colpito da una pallottola alla tempia sinistra,  tornammo indietro, io pensavo a raggiungere nuovamente mia madre e mio figlio.

Si sentì solo un colpo?

No, sentimmo molti colpi, sparati in aria dalla Polizia. Ci furono anche dei feriti stimati intorno a diciassette.

Subito dopo che cosa accadde?

Si creò una certa tensione; la Polizia volendo evitare una strage se ne andò e ci permise di tenere il comizio non autorizzato.

Cosa successe nei giorni successivi? La polizia avviò le indagini?

Innanzitutto si svolsero i funerali che ebbero una grande partecipazione popolare: vi era un corteo interminabile. Le indagini, invece, ricaddero soprattutto su due civili che poi furono scagionati.

Dopo l’omicidio la tensione continuò ancora?

Eccome! La tensione era forte, sin dal dopoguerra per le lotte del bracciantato e l’occupazione delle terre. Per andare a coltivare

i latifondi si “ scioperava a rovescio” ossia si lavorava la terra per ottenerla. Io stesso partecipai a queste lotte; nel 1948 assieme ad un gruppo di ragazzi fummo denunciati dal guardiano di un tratto di terra abbandonato per “violazione e danneggiamento alla libera proprietà”, ricordo ancora la difesa del nostro avvocato che chiamò in causa la Costituzione e il fatto che a danneggiare un terreno incolto non è certo colui che lo coltiva, quanto, piuttosto, il proprietario che lo ha abbandonato; fummo assolti.

La tensione quando finì?

Durò fino al 1960 con il famoso governo Tambroni. Ad Adrano e Biancavilla il fenomeno dell’occupazione delle terre fu potentissimo, grazie alla presenza dei sindacati, tra i più forti di tutta la provincia. I poveri contadini lavoravano il latifondo tutto l’anno per poi andarsene con quasi niente, in paese si diceva “’ca tradente ‘n coddu”(“tradente” sta per il tridente utilizzato per “spagliare” durante la trebbiatura).

É vero che la Cisl provinciale diretta da Vito Scalia tentò di speculare sull’accaduto?

Si venne a creare una forte contrapposizione ideologica, in seguito alla scissione del sindacato, nel 1948, tra il rosso e il bianco, cioè tra la Camera del Lavoro, guidata da Giuseppe Di Vittorio, e la Cisl, diretta da Giulio Pastore.

Girolamo Rosano fu ucciso perché comunista?

Girolamo, in verità, era un giovane lavoratore, sicuramente propenso alla lotta di classe, ma non era un militante; piuttosto, la sua figura divenne simbolo di lotta sociale sia nel Pci che nei sindacati. La famiglia andò a testimoniare il “martirio” di Girolamo persino a Roma.

Intervista realizzata da Calogero Rapisarda, Antonio Cacioppo, Vincenzo Ventura.

Giuseppe Coco, umorismo e surrealismo s’incontrano

in Homines di

Nel giugno 2008 a Biancavilla è stata inaugurata l’esposizione permanente del disegno satirico e umoristico di Giuseppe Coco. Un vero e proprio gioiello dell’opera grafica del cartoonist di costume conteso negli anni ‘70 e ‘80 dalle più note e diffuse testate europee.

Lo abbiamo intervistato nel suo “museo” per una speciale visita guidata. Un modo per parlare estemporaneamente di arte e letteratura, di ricordi e nostalgie, di segreti e ammiccamenti…

 

Maestro, vignette e tavole: qual è la differenza? C’è un rapporto gerarchico tra le due? E Coco verso quale si sente più congeniale?

Naturalmente verso la tavola, perché permette un’espansione maggiore. Si ha come l’impressione di realizzare un affresco. La vignetta, invece, per sua natura, è più richiesta dalle agenzie. Vengono fatte diverse copie e distribuite  nei giornali. E soprattutto occupa uno spazio minore. Specie in Italia, le vignette, sempre in orizzontale, occupavano 12×7 cm. Io le amavo moltissimo.

 

Quando mi commissionavano delle vignette, io mi ponevo un tema e poi le realizzavo. Intorno agli anni Settanta sono cominciate le tavole a colori e ho cominciato con Playmen. Ricordo che il direttore Luciano Oppo mi telefono: “Coco, ho visto delle tue cose, ma a me le vignette non interessano. Voglio delle tavole a colori con una gag. Voglio che si allontanino il più possibile dalla vignetta”. E così sono nate le mie opere. Le tavole per Playmen sono dei quadri veri e propri.

 

Lei ha utilizzato sia la tecnica con i colori a tempera che il bianco e nero: tra le due c’è una differenza?

La differenza è sostanziale: nel bianco e nero i piani o la prospettiva la trovo tramite un tratteggio, quindi una via di fuga per quello che tu disegni: c’è un primo piano e poi il tutto converge in fuga, come in un imbuto, nel colore c’è solo il tratto, mentre il chiaro-scuro e la fuga delle cose rappresentate sono fatte col colore. Un vero disegnatore si riconosce dal disegno perché il colore aiuta (e fuorvia) moltissimo. Ad esempio, mentre un colore caldo forma un piano, uno freddo forma lo sfondo, nel bianco e nero questo non c’è, si ha solo il tratto nero.

Io mi divertivo un mondo a fare le tavole in bianco e nero, utilizzando diversi segreti. Utilizzavo un pennino grosso, un Perry e un Atom, pennini che non si utilizzano più, perché oggi nessuno disegna. Nel disegno c’è tutto. L’illustrazione, la vignetta, i cartoni animati hanno preso la supremazia su certi valori plastici.

Ricordo che in seguito ad un film stupendo, Il mistero Picasso di Henri Clouzot, film che circolava negli anni Sessanta, si tenevano diversi dibattiti. C’era chi sosteneva: “Più che un pittore, Picasso sembra un disegnatore” e chi ribatteva, e io condivido la risposta, “e chi se ne frega!” (ride, ndr).

Con ciò si vuole dire che quando un disegno dice tutto è superfluo aggiungere altre cose. C’è un quadro che considero bellissimo Donna piangente di Picasso dove è possibile vedere tutte le smorfie, le rughe, le lacrime di una donna.

Questo è un disegno colorato e a nessuno interessa se ha usato il chiaro-scuro perché è tutto un disegno ed è importante che si è riusciti nel comunicare ciò che si voleva comunicare.

 

Quindi tra un pittore e un disegnatore c’è differenza?

Per me Picasso rimane il più grande disegnatore del mondo, ma ciò non vuol dire che l’essere disegnatore lo escluda dall’essere anche pittore.

 

Queste 86 tavole hanno un ordine logico?

Non nell’ordine di numerazione. C’è una coerenza nello stile e una differenza nel soggetto, perché è tutto subordinato al tema. Ad esempio, se io devo disegnare una persona chiusa in una stanza, escludo la folla. Nella folla, nella frantumazione di tutto il disegno io mi riconosco.

 

Ma c’è un’evoluzione?

Si, nel tratto c’è un’evoluzione!

 

Secondo lei, dove è ravvisabile la maggiore evoluzione?

Per me è cominciata nel ’72-’73 con Playmen, con il piacere morboso di disegnare. Lì ti senti padrone del disegno. Questa padronanza te la dà il disegno in bianco e nero, infatti non sempre sono capace di disegnare in bianco e nero. E’ come se volessi entrare dentro col fare il rilievo, la prospettiva e poi io faccio delle false illusioni di fuga, e tutto ciò mi diverte infinitamente. Un vero artista si vede nel disegno. Quando uno non sa disegnare lo si vede benissimo.

 

Da Biancavilla a Milano il passaggio è forte. Oggi cosa le manca di Milano? E quando si trovava a Milano cosa le mancava di Biancavilla?

Di Biancavilla non mi mancava niente! Neanche di Adrano: nemmeno per idea, anche se io ho un “ramo ‘ddurnisi”, mio nonno.

Negli ultimi anni tornavo qui perché avevo un giardino. E qualcuno mi chiedeva: “torni qui per le tue radici? E io rispondevo “sì, sì per le radici… del mio giardino!” (si ride, ndr).

Io credo molto nell’intelligenza dei siciliani, come radice. Ma i siciliani attraversano periodi in cui sono distratti da tanti problemi. Qualche volta incontro qualcuno che sa cosa è l’Arte. Il resto non è che non la capisce, non gliene importa niente… ha altri interessi.

 

L’infanzia di Coco a Biancavilla come è stata?

Brutta, perché avevo dei fratelli più grandi che giocavano a palla. Però, non c’erano soldi e usavano un barattolo. Io ero piccolo e non capivo. Mi dicevano di fare il portiere e mi mettevano tra due sacchi che facevano la porta. Credevo che dovessi parare… E invece ho scoperto che chi mi colpiva segnava un punto! Infatti, ho una cicatrice sul braccio e altre quattro, cinque cicatrici in testa. Ho sempre avuto l’impressione che volessero farmi fuori!

 

Andando a Milano, che aria si respirava?

Era tutto bellissimo, perché era tutto in crescita. Ma ho dovuto lottare. Prima abitavo in pensioni, nel ’63 avuto il contratto finalmente potevo permettermi una casa…

 

deperimento organico. Insomma, il rischio c’è ed è forte. E’ un’avventura insomma. E io ero turbato quando dicevano sottovoce, indicandomi, “quello è un professionista”. E dicevo tra me e me: “forse ho sbagliato. Adesso mi impiego!” (ride, ndr)

 

Quali erano gli artisti più in vista?

Il periodo veramente creativo a Milano è stato il movimento di pittura astratta. Tra i  fumettisti c’erano Guido Crepax, Dino Battaglia e Hugo Pratt. Tra i disegnatori c’era Cavallo.

Quando io ho cominciato a pubblicare su Playmen ho cercato di fare qualcosa di diverso. E questo mi è stato riconosciuto. Peccato che oggi non ci sono più  giornali votati alla grafica. Ecco perché io dico che questi disegni (indica le opere esposte a Villa delle Favare, ndr) ci rappresentano veramente, noi viviamo di questi. Il fare classico è morto e sepolto.

 

I cattivi maestri di Coco quali sono stati?

Anche se li cito nessuno li conosce… Sono intellettuali che hanno scritto e che hanno una visione del mondo, non dico completamente trasversale, ma un po’ diagonale. Sono dei mistici orientali: Tilopa, Milarepa, ma anche scrittori come Franz Kafka, nel quale mi riconoscevo. Poi, a 16-17 anni avevo letto tutto Allan Poe. Invece i pittori che mi hanno turbato sono Franz Kline, ma non per la pittura, perché lui non dipingeva ma faceva delle macchie, difatti è il pittore più copiato.

Quando nell’86O-’87O muore l’ancien regime c’è una rivoluzione industriale, e quello che viene a mancare è la necessità di rappresentare la cosa. Questa è la radice dell’arte astratta e cioè la pittura non come rappresentazione, ma come espressione, quindi si arriva al novecentocinque con Kandinskij, per poi arrivare a Picasso. I grandi maestri sono questi. Io a 14 anni ebbi

 

una crisi e smisi di disegnare anche per il fatto di avere dei cattivi maestri che mi dicevano cosa dovevo fare. A Lucca abbiamo constatato che io, Giraud e Crepax, abbiamo avuto tutti la stessa crisi adolescenziale, in cui nessuno per qualche anno ha più disegnato. Perché disegnare copiando è di una banalità, e di una stupidità fortissima. Poi a 15 anni scopri la fantasia e sei libero di fare ciò che vuoi. A me colpì Picasso e ripresi a disegnare.

 

Tra le mostre c’è qualcuna che ha segnato una tappa fondamentale?

Sicuramente la mostra del ’68, quella della Pop-art a Venezia. A Milano c’era persino la difficoltà di riuscire a vedere tutte le mostre: ce n’erano così tante in città… A Palazzo Reale ci sono state delle mostre davvero interessanti, come quelle dei Surrealisti o di Renè Magritte.

 

Fondere l’umorismo con il surrealismo è cosa semplice?

Sono parenti. Io agisco con delle similitudini grafiche, perché se, per esempio, io realizzo di tre quarti una figura appoggiata, mi dà lo spazio per mettere altre due braccia e il soggetto risulta appoggiato su tre braccia. Questo può essere una gag, ma anche surrealismo. Ma potrebbe essere anche una scena dolorosa come l’autoritratto che ho fatto e che è qui esposto.

C’è una famosa fotografia di Gadda dalla quale ho tratto lo spunto per una mia opera. Ho rappresentato un soggetto, un mostro con sette dita che si copre il volto per non vedere il mondo. Non c’è un surrealismo alla Andrè Breton, nel quale in modo ortodosso si interpretano gli archetipi dell’incontro collettivo, questo lo fa Renè Magritte.

C’è un surrealismo psicologico che in qualche modo ti colpisce. Altrimenti non si spiega quel quadro bellissimo di Salvador Dalì dove c’è una siepe e c’è un cucchiaio che esce come un serpente.

 

La donna è stata oggetto privilegiato delle sue opere. Come mai?

Perché gli uomini vengono attratti dalle donne e viceversa. Io l’ho disegnata per diciotto anni per Playmen. Incominci a divertirti. Poi se tu disegni il nudo di donna è sempre un nuovo piano architettonico che fai. L’uomo non presenta alcuna attrattiva.

 

Cosa è stata, cosa è e cosa sarà l’Italia del fumetto?

Adesso il fumetto è diventato stupido, più violento. Prima c’era eleganza. Poi ho visto i fumetti dei miei nipoti stile

sono brutti e di una violenza inaudita.

Oggi non ci sono giornali che pubblicano fumetti. C’è Famiglia Cristiana che pubblica le vignette con disegnatori uno peggiore dell’altro. C’è il culto del disegno, della personalità, del personaggio disegnato. Ho lavorato talmente tanto e qualche amico di Milano dice “perché non li raccogli?” Ma cosa raccolgo?!, ci vorrebbe un Palazzo. Questa esposizione è infatti il meglio di Coco ed è bene dire così perché questi presentati, sono i lavori più ricercati. Fatti per essere esposti e visti, cosa che a me non dispiace.

 

Il piacere di dipingere di disegnare c’è e c’è sempre. Ma quando si lavora su commissione e magari non è nelle sue intenzioni, come riesce a distaccarsi dal tema che magari non preferisce?

Se uno commissiona il più delle volte si sta a metà strada per accontentare il cliente. Quando qualcuno mi commissiona un disegno è perché ha visto in precedenza delle opere. Io mi esaltavo quando qualcuno mi ordinava delle opere, dopo aver visto i miei lavori.

Nel ‘66, quando incominciavo ad essere notato, il Corriere dei Piccoli mi ordinò dei disegni che, obiettivamente, erano abbastanza grandi, e Cassio Morosetti, quasi sospettando che cosa avessi realizzato mi disse: “Coco fai delle bozze e poi mi mostri il disegno”. Ciò perché potevo approfittare dello spazio messo a disposizione per fare e dare spazio alle mie idee, alla mia creatività. Questo loro non lo volevano, perché avevano visto delle tipologie di disegno e volevano proprio quei temi tradizionali. Questo è il meccanismo dell’ultimo Peppino Migneco, che dipinse per cinquant’anni cesti con i “masculini” fino a quando non si stufò. Il suo committente gli disse che la richiesta era proprio quel tipo di lettura, altrimenti non avrebbe rinnovato il contratto e lui rimase costretto a dipingere quel tipo di ceste con il pesce.

Ciò vuol dire che quando si vive dell’Arte è necessario dimenticare l’Arte, per poi entrare nelle opere comunque, se questa c’è.

Quando stavo a Biancavilla pubblicavo sul Travaso, che mi dedicava delle pagine e non sapeva che avevo 17 anni. Quando sono arrivato a Milano ho dovuto cancellare tutto perché nelle grandi città ci sono “nuovi riti, nuovi miti” e quello che conta anche nei contratti delle grandi gallerie è il denaro. Si finisce per diventare dei geni senza una lira in tasca. Se l’Arte c’è questa entrerà comunque nell’opera.

 

Un artista sceglie anche il suo target: Coco è per l’elite o per la massa?

Io sono per tutti e due. Solo che a volte non ci riesco. Ma l’ideale è questo. Gli scrittori ci riescono meglio, mentre nel disegno è più difficile. Don Chisciotte è un romanzo di successo perché, tu che sei anche archeologo (riferito a Placido Antonio Sangiorgio), è una tettonica a strati. C’è uno strato che è quello dell’avventura, della comicità. Poi ci sono altri strati… c’è anche la storia delle società segrete in Europa. Perché quando lui entra nel mondo magico degli eroi, c’è un dormitoio pubblico di cavalieri erranti morti.

L’altra sera sono giunto alla conclusione che gli insegnanti che fanno concludere i corsi sono i professori cretini, quelli bravi vengono richiamati dal Preside e mandati.

 

Questo museo a chi è affidato idealmente? Chi è il destinatario privilegiato di questo Museo?

Ai cittadini di Biancavilla. L’ideale sarebbe questo.

Nella seconda pagina del contratto stilato ho voluto fare una donazione ai biancavillesi.

 

Il fatto che così tanti giovani facenti ad un periodico siano qui, a ritrovarsi per conoscere Coco non è di poco conto…[coco.JPG]

Il messaggio nelle opere è tutto evidente, c’è una radiografia dell’autore. Si deve cercare attentamente cosa è disegnato e come è disegnato. L’autore, io, non conto proprio niente. Contano di più i miei disegni, la mia radiografia è lì (indica le opere) e c’è anche la mia visione del mondo.

 

Al maestro Giuseppe Coco i più sinceri ringraziamenti ed apprezzamenti per averci fatto dono di un incontro esclusivo di alto profilo culturale e dell’opportunità di pubblicare una sua opera in questo Speciale di Symmachia.

 

 

 

 

 

A lezione dal Canonico Bascetta

in Homines di

Dopo aver letto, con non celato interesse, il primo numero del giornale ho pensato fra me e me che Symmachia rappresenta l’ultimo virgulto – non certo per importanza, forse il più energico e diretto, di una rinnovata stagione di associazionismo adranita, dopo anni di torpore della coscienza civica.

Gli obiettivi dell’associazione e la linea editoriale della rivista lasciano ben sperare, poiché vanno verso la formazione di una nuova consapevolezza del Municipio. Questo è il motivo per cui ho deciso di dare questo mio spontaneo contributo al giornale.

Così come potrebbe far presagire il titolo, il mio non è, solo, un nostalgico ed edificante ritorno al passato, quando il fervore politico, l’eloquio brillante (spesso dialettale, la cosiddetta “parrata di padre Bascetta”) e la formidabile capacità e, forse, anche più importante, disponibilità, di contraddittorio (virtù fondante di qualunque comunità democratica, oramai sepolta dai lunghi, spesso indecorosi e patetici soliloqui televisivi di esponenti politici locali) di un giovane prete adranita, amico di don Sturzo, sfociavano impetuosamente nella piazza gremita di genti avide del proprio riscatto sociale e non solo. Quel consenso si aggregava sulla base di interessi collettivi della comunità adranita e di un’idea riformista ben precisa: saziare la fame di terra di braccianti e contadini con la divisione delle terre del latifondo e la creazione della piccola proprietà contadina.

D’altronde, non voglio tessere le lodi del personaggio che per questioni anagrafiche non ho avuto modo di conoscere personalmente, intendendo qui solo fare riferimento al suo documentato e testimoniato (diversi adraniti attempati lo ricordano ancora come il prete che diede le terre, anche se qualcuno di loro sottolinea, sardonico, che non erano quelle migliori; certo superare la diffidenza dei possidenti e convincerli a disfarsi da subito dei poderi migliori avrebbe avuto del miracoloso. Ma, i miracoli, ahimè, non erano prerogativa del nostro, il quale agiva sempre sulla base di presupposti reali e realistici) impegno sociale e politico, oltre che pastorale, anche se penso che tutte queste differenze il Canonico non le abbia mai fatte, essendo il suo operato un unicum inscindibile del quale la comunità rappresentava la dimensione costitutiva.

A voler narrare qualche dettaglio personale, pare proprio che per la sua forza di carattere, non amasse essere contraddetto. Ma, prima ho parlato di disponibilità al contraddittorio e non di sublimazione dello stesso. Se uno è realmente convinto delle sue idee, se attaccato non le svenderà al miglior offerente ma le difenderà con la forza delle sue argomentazioni. Certo, potrà capitare di farlo a malincuore, ma mai negando a priori il confronto. Voltaire disse qualcosa in merito il cui senso – non letterale – è questo: “Anche se non condivido ciò che dici, farò di tutto per garantire la tua libertà di espressione”. E visto l’andazzo suggerirei, però, di usare il buon gusto di provare, almeno, a comunicare realmente qualcosa a chi ha la gentilezza di ascoltare!

Ma allora qual è il punto? Ve lo riassumo in due parole: i partiti politici, schiavi del consenso immediato e, per questo, sempre più propensi a generare clientele e a cavalcare le condizioni di bisogno della gente, hanno fagocitato qualunque idea di interesse collettivo. Nei comuni ciò è equivalso alla soppressione di ogni tentativo di governo della polis, manifestazione per antonomasia della prima forma di democrazia, quella diretta della città-stato.

Non è un caso che del forte impegno municipalista di don Sturzo, nella sua Caltagirone, e della sua nutrita schiera di probi amministratori locali, tra cui il nostro Vincenzo Bascetta, si parli poco o niente.

Oggi il tormentone è il federalismo in salsa leghista, quello delle mille deleghe avvenire, di cui anche chi ne parla conosce ancora poco – e ancor di meno i numeri, e probabilmente tutti sanno, ma tacciono, che i comuni avranno poco di che stare allegri visto il serissimo rischio di rafforzare il potere di quelle straordinarie macchine mangiasoldi e centri di potere che sono divenute le regioni.

Già a fine ‘800, il giovane Sturzo, al pari di padre Bascetta – la differenza tra i due non sta certamente nell’impegno profuso e nella qualità dell’azione amministrativa locale, ma nella diversa collocazione e sfera di influenza che in Sturzo, per diversi motivi, è certamente più ampia – incominciò ad insegnare ai suoi concittadini cosa fosse un comune di uno Stato democratico. Al centro di tutto vi era il valore fondante della libertà della persona e della tutela della famiglia. La persona, la famiglia, il comune vengono prima dello Stato che, secondo il principio di sussidiarietà, spesso male interpretato o strumentalizzato, può essere solo uno strumento e non un fine. E’ chiaro che non era puro e semplice localismo. Quello che si limita alla propaganda della sagra del cacio cavallo di vattelapesca, per intenderci.

Il suo era il tentativo di far emergere dal particolare della vita cittadina, e dei rapporti che in essa si intrecciano, i principi di una vera democrazia. E l’impegno fu così convinto e costante – di certo i gravami romani legati alla nascita del partito popolare gli sottraevano non poco tempo – che egli, ripensando alla sua attività municipalista di Caltagirone, ebbe a dire: “Non capiscono niente coloro che sottovalutano questa mia attività”.

Allora i partiti non avevano assunto il ruolo di centralità che hanno oggi. Addirittura, i primi studiosi in materia di democrazia non ne facevano alcun cenno. Max Weber ricordava come l’esistenza dei partiti non era contemplata da nessuna Costituzione democratica e liberale fino al 1920.

Anche la nostra Costituzione si limita a considerare nell’art. 49 la, quasi timida, possibilità che i cittadini hanno di associarsi in partiti per concorrere, peraltro con metodo democratico – salvo dispense divine! – , alla determinazione della politica nazionale.

E allora da dove deriva il loro strapotere e la loro necessità di esistere e dettar legge in ogni ambito territoriale, financo nel piccolo e antico borgo di Carcaci?

La risposta è semplice, anche se non scontata, poiché gli argomenti necessari alla sua formulazione si scontrano sempre con la subdola retorica democratica, che alza la cresta soprattutto nei periodi più bui, quando vacilla l’idea di una sana e robusta rappresentanza popolare e con essa della legittimazione al potere della classe politica.

La democrazia essendo un contenitore vuoto, anzi pieno solamente di un metodo attraverso il quale si assumono le decisioni – quello democratico, per l’appunto – non è un valore in sé e non propone valori. Ciò l’ha resa particolarmente vulnerabile nei confronti delle sempre più pressanti spinte mercantiliste della società moderna, che con i loro parametri esclusivamente quantitativi – quelli monetari in testa – e di potere hanno colonizzato tutto il sistema politico e dei partiti.

Questi ultimi, infatti, da mera possibilità si sono trasformati in assoluta necessità, arrivando ad incarnare l’essenza stessa della democrazia decretandone, per certi versi, la fine. Essi, sotto lo scudo della libertà politica, caduti progressivamente vittima delle oligarchie e dei potentati economici del nostro paese, ne rappresentano oggi il loro braccio operativo.

Ed è proprio tale circostanza che fa venire meno uno dei presupposti essenziali di qualunque democrazia: il voto deve essere uguale. Purtroppo, così non è! Il voto non è uguale. Spiega, infatti, efficacemente, un certo Gaetano Mosca: “Cento che agiscano sempre di concerto e di intesa gli uni con gli altri trionferanno su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo fra loro”. Morale della favola, il voto del cittadino libero, non appartenente ad alcun partito, non infeudato, il cosiddetto voto d’opinione non conta nulla rispetto a quello organizzato.

E, siccome è probabile che a breve saremo chiamati alle urne, se qualcuno riproporrà la manfrina del voto utile, ovvero la preghiera di non disperdere il voto al di fuori di Pd e Pdl, ebbene non avremo di che meravigliarci! La logica è esattamente quella del voto disuguale che, in un sistema bipolare – anche se sbilenco – come il nostro, non può che essere esaltata.

Nel nostro piccolo, abbiamo dovuto sorbirci anche le sortite di chi faceva a gara nel tentativo di auto legittimare la propria appartenenza al Pdl – questa volta solo Pdl – totalmente dimentico del fatto che questo partito, nella totalità delle sue componenti, finiani compresi, ha battuto ogni record nell’approvare una serie di leggi tutte con l’obiettivo di risolvere i problemi di una singola persona. Sbaglio, o la “generalità” è uno dei requisiti delle leggi dello Stato? Bah, probabilmente sono io a essere “esagerato”, perché quello che realmente conta è riuscire a capitalizzare al meglio il proprio portafoglio voti. E dove vai, se il Pdl non c’è l’hai ….? Corri il rischio di sparire dallo scenario della politica che conta! Però, non so se Sturzo o Bascetta, avrebbero condiviso questo tipo di realismo politico! Ma credo, anzi ne sono convinto, che anche tra i contemporanei del Pdl stesso, ci sia chi nutre seri dubbi. Solo che rimane impantanato nella palude del degrado intellettuale e della soggezione nei confronti del capobastone di riferimento per paura dell’ isolamento o per imperitura gratitudine per chissà quale incarico o consulenza.

Comunque, i politici non sono tutti uguali – anche se quelli degni di menzione sono veramente pochi e non è per nulla semplice identificarli ed avere modo di apprezzarli – o criticarli – perché relegati spesso al margine e non sempre riescono ad avere la visibilità che meritano, ma vi assicuro che esistono. Non sono, però, così ingenuo da farvi nomi.

Allo stesso modo, penso che l’attuale nostra amministrazione comunale non possa essere paragonata a quella precedente. Se non altro, per la diligenza usata nella gestione della cosa pubblica e la maggiore perizia mostrata sino ad oggi nell’impiego delle scarse risorse finanziarie a disposizione.

Eh sì, perché checché se ne dica, l’amministrazione di un comune è fatta anche di piccole cose, piccole manutenzioni, la porta, la maniglia, la finestra, la sistemazione del chiosco, …. tutto tranne l’abbandono! Dichiarazioni roboanti e pretese faraoniche lasciano il tempo che trovano.

Comunque sia, ciò che a noi importa è che gli interessi della nostra comunità non vengano sacrificati sotto i pesanti condizionamenti di questa o quella segreteria politica e dei loro menestrelli o in nome di interessi particolari più o meno occulti.

Sappiamo che la politica locale, quella fatta di impegno civico e spirito di servizio, può prescindere benissimo da qualunque partito e trovare spazi alternativi. Basta coltivare quell’ampia area grigia inaridita dal disinteresse, da tornaconti personali e condizioni di bisogno che hanno offuscato ogni visione del bene comune. Insomma, meno partiti più società civile.

Non è concepibile che un ristretto numero di consiglieri comunali, trenta, debba appiattirsi sulle posizioni di due o tre gruppi consiliari. L’approvazione di un atto è meno importante delle sue stesse modalità. Il voto finale, positivo o no, è solo una sintesi. Quello che importa è la ricchezza del dibattito e l’intensità del confronto che la genera. Se necessario, il consiglio comunale deve essere capace di esprimere trenta diverse dichiarazioni di voto. Tutte giustificate da visioni differenti.

In una piccola comunità come la nostra ciò non è solo auspicabile. E’ assolutamente possibile. Si chiamerebbe, semplicemente, democrazia cittadina. E nel Medioevo è già esistita.

L’impegno che deriva dalla rappresentanza politica, quella autentica, non può che essere disinteressato. A buon rendere. Le tribolazioni e le carriere degli onorevoli o aspiranti tali, non ci possono impensierire; esse sono il frutto di una loro malintesa interpretazione, figlia del dilagante malcostume, che induce a sovrapporre la sfera privata a quella pubblica. Il rapporto tra eletto ed elettore si configura oggi alla stessa stregua di quello, privato, tra cliente e professionista (della politica). Quest’ultimo fa solo gli interessi del primo.

Lo spauracchio della mancata elezione o rielezione non può essere l’unico metro di riferimento dell’azione politica ed amministrativa. A volte può essere necessario assumere posizioni impopolari che rispondono, però, alle esigenze della comunità, magari quelle non a breve termine. “Il popolo vuole sempre il bene, ma di per sé non sempre lo vede” (Rousseau). E se non riesce a vederlo nemmeno chi amministra, perché accecato dal consenso, sempre e comunque, siamo belli e fritti!

L’impopolarità, se è il prezzo delle proprie idee, diventa allora anch’essa un dovere individuale e nei confronti della collettività, che trova, peraltro, il suo fondamento giuridico nell’assenza di vincolo di mandato di ogni eletto.

E, poi, il miglior servizio reso alla comunità è quello che si ricambia facilmente e si alimenta di forze nuove, capaci di contributi originali che possano travalicare la visione stantia dei soliti gerontocrati.

Dimenticavo. Speriamo che Fini decida di dare alla luce la sua nuova creatura politica al più presto così, l’Italia sarà un po’ più libera – meglio tardi che mai! – e con buona pace di tutti e, soprattutto, del Pdl paesano, ognuno avrà il suo bel simbolo. Per Adrano e gli adraniti non cambierà un bel nulla!

 

 

Foto: TVA
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