Ogni riferimento a cose, persone e circostanze è assolutamente voluto.
La battaglia delle Termopili non ha avuto solo il significato di simboleggiare l’eroismo spartano di re Leonida, quella battaglia ha fatto che sì che si salvasse la Grecia i cui principi sono stati fondanti la civiltà europea tutta, dai modelli politici, al sistema filosofico, dall’arte alla letteratura, fino al diritto.
Ma l’aspetto più affascinante di quella civiltà è, secondo me, il desiderio di indipendenza, di libertà, portato alle estreme conseguenze del sacrificio personale, come i trecento eroi hanno testimoniato.
Oggi quella pagina meravigliosa di storia mi è tornata in mente, forse perché all’approssimarsi delle elezioni regionali osservo i comportamenti di alcuni personaggi che popolano il sistema politico della nostra città.
E mi si para davanti la dicotomia tra cittadino e suddito, tra servo e padrone, tra vassallo e feudatario.
Nelle strettoie delle Termopili si scontrarono non tanto due eserciti, ma due mondi contrapposti, due concezioni inconciliabili, da una parte l’idea persiana-orientale basata sul concetto di uomo come suddito e dall’altra parte l’idea greca di uomo come cittadino.
Cittadino è il civis, colui che partecipa alla vita della propria comunità in modo attivo, come tale è depositario di diritti e libertà.
Il suo contrario è il suddito, privo di diritti e incapace di muoversi in libertà, è colui il quale si piega ad un sistema di oligarchia, è chi tace, è chi volta lo sguardo, è chi abbassa la testa.
Il cittadino è colui che rifiuta di infeudarsi, infeudarsi ecco la parola chiave, feudo, feudalesimo, feudatario.
La politica della nostra città sembra aver ripudiato Leonida per rifarsi a qualcosa di profondamente diverso: il vassallaggio.
Il vassallaggio è stato la struttura portante della civiltà feudale, lungi da me voler fare un excursus storico così complesso, mi preme solo dire che quel sistema ha avuto una funzione storica importantissima, perché all’indomani del crollo dell’Impero Romano e la conseguente disintegrazione della civiltà, il feudalesimo permise di traghettare l’Europa verso un destino migliore.
Il feudalesimo si fondava su un rapporto personale tra il signore e il vassallo (vassus), il quale giurava fedeltà ricevendo dal signore protezione.
Tutto avveniva con una cerimonia di “omaggio”, in cui il vassallo poneva le mani giunte in quelle del signore, all’interno di una cornice spirituale tipica della sacralità medievale.
Ma questo era il feudalesimo storico, altra cosa è il neofeudalesimo di oggi.
Il feudalesimo storico aveva bisogno dei vassalli perché insieme a loro si doveva salvare una società in preda al caos, il neofeudatario, invece, ha bisogno di lacchè per perpetuare il suo potere e per creare una vera e propria macchina del consenso.
La macchina elettorale deve essere perfetta, deve possedere non un castello ma una segreteria, non bellatores (guerrieri), ma clientes (clienti), non contadini ma servi.
Il neofeudatario non dispensa terre e protezione contro i barbari, ma favori, licenze, assunzioni, finanziamenti, prebende varie.
Sia chiaro, quello che colpisce non è l’atteggiamento del neofeudatario , ma quello dei suoi sottoposti.
Voglio citare un libro sconosciuto ai più, “Discorso sulla servitù volontaria”, scritto da Etienne De La Boétie” nel 1549 e pubblicato clandestinamente nel 1576, un testo piccolo ma un capolavoro sulla libertà, meraviglioso e terribile allo stesso tempo, teso a smascherare l’atteggiamento di quegli uomini contenti di servire un tiranno, anche se il tiranno è un uomo senza qualità, uomini docili verso un padrone che li piega al proprio volere non con violenza ma facendo leva sulla loro compiacenza; non si capirebbe altrimenti il perché di chi, ricco di proprio (svincolato quindi dalla necessità e dal bisogno), senta lo stesso l’irresistibile piacere di sottomettersi.
De La Boétie ci spiega che i potenti sarebbero veramente poca cosa se non ci fossero pletore di servi pronti all’obbedienza.
Li vedi là, auto immortalati nelle foto e guardandoli capisci che sono contenti, compiacenti per aver stipulato un rapporto perverso tra l’uno, il forte e loro, i deboli.
La loro debolezza si trasforma in assuefazione, giungendo persino ad a modificare il loro pensiero per poter giustificare il loro servilismo.
Il fascino dell’obbedienza è molto diffuso, ma questi uomini si accontentano di poco, barattano la loro libertà con sistemazioni precarie e sottopagate, con promesse di corsie privilegiate per ottenere favori; quindi la questione è soprattutto psicologica, essi hanno una propensione naturale al servilismo, sono disposti a sottomettersi per poco pur di entrare nelle simpatie del potente.
Non li condanno, “tengono famiglia”, ed è per questo che lancio loro un appello.
Nel suo “Trattato del ribelle” Ernest Junger vuol convincere gli uomini che la resistenza ai potenti è possibile e nasce dalla conquista della libertà interiore:
“se le grandi masse fossero così trasparenti, così compatte fin nei singoli atomi come sostiene la propaganda dello Stato, basterebbero tanti poliziotti quanti sono i cani che servono ad un pastore per le sue greggi. Ma le cose stanno diversamente, poiché tra il grigio delle pecore si celano i lupi, vale adire quegli esseri che non hanno dimenticato cos’è la libertà. E non soltanto quei lupi sono forti in se stessi, c’è il rischio che, un brutto giorno, essi trasmettano le loro qualità alla massa e che il gregge si trasformi in branco. E’ questo l’incubo dei potenti”.
Nessuno di noi si erge a moralista, a giudice, nessuna condanna senza appello, la verità è che, pur tra i mille errori commessi, alcuni uomini conservino un’ idea della politica come dignità, speranza, capacità critica e soprattutto libertà.
Credetemi non siamo tutti uguali.