di Pietro Bonanno
Siamo nel 1985 e gli U2 sono una delle band di maggior rilievo di tutto il mondo.
Il successo di “The Unforgettable Fire”, prodotto da Brian Eno, ha spinto la rivista “Rolling Stone” a definire il gruppo irlandese “il miglior gruppo degli anni Ottanta”. Tuttavia manca quel tanto che basta affinchè questa band possa essere finalmente considerata fra i giganti del rock.
Detto fatto, arriva il capolavoro.
Bono e soci, per il nuovo album, si allontanano dalla cupa e grigia Dublino, la stessa che ha visto nascere capolavori come “New Year’s Day”, “Sunday Bloody Sunday”, “I Will Follow”, per approdare nella tanto desiderata America, dove i quattro dublinesi intraprenderanno un viaggio che cambierà quasi nettamente la prospettiva che essi avevano nei confronti degli USA.
E’ per i deserti della Death Valley che nasce “The Joshua Tree”.
I brani sono un amalgama fra le sonorità post-punk del loro periodo post-adolescenziale (Boy, October e War), e le nuove esplorazioni country/blues/rock caratteristiche della musica americana.
Le liriche sono ispiratissime, influenzate anche dall’incontro con il “mahatma” Bob Dylan, in cui Bono ammise di aver provato sensazioni fortissime (chi non si scioglie dinanzi alla poesia del cantautore di Duluth, Minnesota).
Sono ancora lontani i tempi in cui il cantante diventa la parodia super-buonista di se stesso, qui la denuncia sociopolitica è ancora sincera ed aspra, accresciuta dalla delusione per aver preso atto dell’altro volto degli USA, quello opaco e torbido delle amministrazioni Carter/Reagan.
L’apertura è epica.
“Where the streets have no name” si apre con l’arpeggio della chitarra di The Edge, quasi un folk elettrico, seguito da una prestazione vocale di Bono eccellente, come in tutto l’album, del resto. Il testo sarebbe ispirato ad un’antica storia riguardante Belfast, nella quale è possibile identificare lo status economico e sociale di una determinata persona in base al luogo in cui quest’ultima risiede.
Bono immagina una città ideale, senza strade che identifichino la personalità di ogni individuo, e quindi, senza disparità: tema classicamente U2.
“I Still Haven’t Found What I’m Looking For” il brano seguente. Un gospel rock in cui la tematica principale è la fede in Dio e la difficoltà dell’uomo nel mantenere saldo il proprio credo in quest’ultimo.
Cucinato nella stessa salsa “With Or Without You”, forse il brano più celebre (non troppo meritatamente) dell’album, qui le corde vocali di Bono e le corde della chitarra di The Edge si inseguono e si intrecciano creando una delle hit più famose della storia degli U2.
“Bullet the Blue Sky” è una delle canzoni più belle e controverse dell’album. Il testo è una velata protesta contro l’amministrazione in politica estera dei presidenti Carter e Reagan nei confronti di paesi “minori”, come Nicaragua ed El Salvador, in cui il cantante poté toccare con mano i risultati della campagna di neutralizzazione economica e strutturale operata a danno di tali paesi, durante un viaggio intrapreso insieme alla moglie in Sudamerica. Il brano si apre con la batteria e il basso di Larry Mullen e Adam Clayton che ripetono continuamente gli stessi accordi, la chitarra “disturbata” di The Edge è accompagnata dal canto rabbioso di Bono. Uno di quei brani che dal vivo rendono ancora meglio.
“Running To The Stand Hill” narra della dipendenza dall’eroina di numerosi giovani dublinesi e, più in generale, della difficoltà della maggior parte dei giovani del tempo a distaccarsi da questo tipo di droghe. Musica e testo raggiungono alti livelli di commozione.
In “Red Hill Mining Town” il canto disperato di Bono, sicuramente al suo massimo storico, narra la difficoltà dei minatori nello svolgere il proprio lavoro, oltre che le difficoltà occupazionali del settore negli anni ’80. Il testo stavolta è composto dal bassista Adam Clayton, figlio, appunto, di un minatore.
Con “In God’s Country” si passa al lato B dell’album. Il brano si svolge seguendo la falsa riga di Where The Streets Have No Name, dal quale scopiazza anche l’intro, ma che nonostante l’ottimo lavoro svolto si dimostra, forse, il brano più debole di The Joshua Tree.
“Trip Through Your Wires” è il brano più “statunitense” dell’intero l’album: un mix fra blues e country, accompagnato da un testo accattivante, danno una caratura più movimentata al brano. Tratta della sensazione di oppressione a cui si va incontro quando si affronta una relazione con una donna, ma che dalla quale non ci si può assolutamente distaccare.
“One Tree Hill” è la canzone più emozionante ed intima dell’intero disco. Dedicata all’autista della band, morto in un incidente stradale in moto, qui i quattro dublinesi danno il meglio di se. Le splendide colline di One Tree Hill, Nuova Zelanda (terra natia dell’autista), ispira le liriche e gli arrangiamenti della canzone e ciò che nasce è una splendida commemorazione per l’amico defunto.
“Exit” è uno dei capolavori assoluti dell’album, di certo la composizione più cupa.
Il brano è quasi un’opera drammatica, in cui viene rappresentato lo stato d’animo e le emozioni che prova un assassino prima di commettere un’ omicidio.
Il clima è cupo, oppressivo, le linee di basso e di chitarra si ripetono all’infinito, ed il canto di Bono è ansioso e quasi inquietante: capolavoro.
“Mothers of the Disappears” è l’undicesimo ed ultimo brano dell’album. È un commovente omaggio alle madri di Plaza de Mayo, ed allo stesso tempo si presenta come critica forte nei confronti del fenomeno dei desaparecidos in Argentina. Piccola chicca: l’intro della canzone si apre con il synth suonato proprio da Brian Eno:
degna chiusura di un album irripetibile.
The Joshua Tree è forse l’apice della carriera degli U2, sicuramente l’album più ispirato.
Nel bene o nel male, questo disco sarà lo spartiacque per il gruppo: da qui in poi il mondo amerà o odierà la band di Dublino, in seguito a discutibili scelte commerciali e musicali.
Di dischi così importanti e soprattutto diffusi (23 milioni di copie vendute) ne usciranno, ben pochi. Musicalmente parlando, l’album, è una delle ultime gemme degli anni ’80, in cui il panorama musicale è saturo di band mainstream e di gruppi TV-friendly, infatti da lì a poco si abbatterà il ciclone Nevermind, Nirvana, che cambierà totalmente e, direi definitivamente, la scena rock mondiale.
The Joshua Tree è una pietra miliare della musica in generale, tuttavia il merito più grande degli U2 è quello di aver creato un opera dalla quale possono attingere (e hanno attinto) sia i giovani degli anni ’80, sia i giovani di oggi. L’attualità del disco anche ai nostri tempi è la dimostrazione che il mondo è difficilmente mutevole, e le speranze per un cambiamento sincero sono esclusivamente riversate sulle spalle dei giovani. Gli U2 non sono altro che il riflesso di milioni di giovani che esprimono tutta la propria rabbia e tutta la propria delusione in un opera spettacolare qual’è The Joshua Tree.
Perché se purtroppo un mondo senza strade e senza disparità è davvero impossibile, mio caro Bono, per 50’11” mi hai fatto credere che fosse possibile.