L’usura è sempre stata oggetto di condanna da parte di pensatori, scrittori e poeti. Aristotele, Dante, Shakespeare, Dostoevskij, Pound, Pirandello, sono solo alcuni tra quelli che hanno avuto qualcosa da ridire. A ciò si aggiunga la secolare tradizione cristiana che considera l’usuraio un ladro del tutto particolare: ladro di tempo. Il suo furto è particolarmente odioso perché ruba a Dio. Cosa vende in effetti l’usuraio, se non il tempo che intercorre tra il momento in cui presta e quello in cui viene rimborsato con l’interesse? Ma il tempo non appartiene che a Dio. Ladro di tempo, l’usuraio è un ladro del patrimonio di Dio. Grazie al purgatorio, però, anche l’usuraio che mostra un serio pentimento può salvarsi. E, d’altronde, la Chiesa non ha mai condannato tutte le forme d’interesse. La condanna assoluta dell’usura nel tredicesimo secolo fu essenzialmente dovuta all’elevatezza dell’interesse del prestito usuraio.
I grandi poeti hanno compreso e descritto la natura scandalosa dell’usura al pari o forse meglio dei teologi. Dante, che colloca gli strozzini tra bestemmiatori e sodomiti e li descrive come bestie accovacciate sulla sabbia resa incandescente da una pioggia di fiamme che tentano inutilmente di spegnere le fiammelle cadute, proprio nel secolo del trionfo dell’usura, dirà:
E perché l’usuriere altra via tene
per sé natura e per la sua seguace
dispregia, poi ch’in altro pon la spene.
In un tempo più vicino, nell’ombra dell’infame Shylock, ricco usuraio del “Mercante di Venezia” di Shakespeare, Ezra Pound afferma:
Usura soffoca il figlio nel ventre
arresta il giovane drudo,
cede il letto a vecchi decrepiti
si frappone tra i giovani sposi
CONTRO NATURA.
Di solito si parla di usura al singolare. Ma l’usura ha molte facce. Già dal tredicesimo secolo appare in diversi documenti il termine al plurale: usurae; proprio a voler descrivere un mostro a più teste, un’idra. L’usura si presenta sotto forma di una molteplicità di pratiche, rendendo sempre difficile la fissazione di limiti giuridici tra il lecito e l’illecito nelle operazioni di prestito con interessi. Ed è per questo che nel 1996 intervenne nel nostro paese un’apposita legge; il lodevole intento era di mettere ordine e di stabilire dei limiti in una materia complessa e perfida come quella dell’usura.
Peccato che, nonostante la secolare, poderosa, levata di scudi contro l’usura, nonché una sempre maggiore presa di coscienza della società e delle istituzioni, il nostro legislatore ha avuto la spudoratezza di mettere il cappello su una perversa normativa. Il D. L. 70/2011 (che ha modificato la legge del ’96, mitigandone in parte gli effetti distorsivi) definisce, infatti, il tasso di usura come quello medio maggiorato di una certa percentuale. Con esattezza, dal 14 maggio 2011 il limite è pari al tasso medio segnalato dagli intermediari aumentato di un quarto, cui si aggiungono quattro punti percentuali. La differenza tra il limite e il tasso medio non può essere superiore a otto punti percentuali.
Ora, la conseguenza di tale automatismo è che se le banche decidono autonomamente (anche in modo subdolo e collusivo) di alzare i tassi, quello di usura viene spostato sempre più in alto con il solo limite dell’otto per cento rispetto a quello medio precedente. Il rischio è che le banche possano scegliere di fissare gli interessi sulla base del tasso soglia dell’usura (sensibilmente più alto di quello di mercato) magari diminuito di qualche punto, alimentando così continui rialzi. E stando a un articolo del prof. Beppe Scienza (pubblicato su il Fatto Quotidiano del 9 ottobre 2013) pare che una tale sciagurata prassi sia già adottata da qualche istituto di credito.
Probabilmente, i “vigili” parlamentari che hanno votato il testo di legge non si sono accorti (o cosa?) di essere complici di quel banchiere boia descritto da Pirandello nel frangente in cui con “la tremante delicatezza delle sue grosse mani” abbottona la camicia bianca intorno al collo del suo figliolo. Le stesse mani che domani strozzeranno il malcapitato.
http://lavocedellidiota.wordpress.com