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Vincenzo Russo

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La parola al popolo (che non ce l’ha)

in Attualità di

di Vincenzo Russo

Non pensiate che le campagne elettorali italiche incarnino solo momenti lubrici. Le loro tortuose dinamiche possono disvelare anche auliche parentesi di consapevolezza democratica ed esaltazione delle virtù popolari. Ove abbiate infatti ben udito, i messaggeri in pectore del centro destra hanno precisato, in occasione delle elezioni siciliane, che sarebbe stato proprio il popolo, in virtù del suo noto codice genetico repubblicano (da un pezzo non più disponibile perché posto a garanzia del nostro debito pubblico in un segreto caveau assieme a quello degli ultracentenari dell’Ogliastra), a censurare nel segreto dell’urna gli ”impresentabili”, rimediando così a quella che deve essere stata una spiacevole distrazione. Oh, perbacco! In fondo a chi non è mai capitato di trovarsi a cena, a sua insaputa, con un boss di cosa nostra?

Come, prego? Qual è allora il ruolo dei partiti visto che dovrebbero proprio selezionare i candidati? Semplice: quello di presentare gli impresentabili, per l’appunto. D’altronde “preferenza non olet”; anche se il risultato politico può essere fetido.

I paladini della dignità popolare paiono proprio ignorare il mesto ammonimento di Einaudi (chi fu costui?), per il quale i cittadini possono facilmente mandare in Parlamento uomini incapaci o corrotti. Sembra proprio che non corriamo più il rischio di ritrovarci governati da inetti e lestofanti (d’altronde quand’è mai avvenuto?) perché il popolo, dall’alto della sua sovranità e nel suo particolare stato di (dis)grazia, saprà certamente discernere il bene dal male. Stavolta, non più Barabba ma Gesù! L’unto dal Signore l’ha sempre saputo. Ed è per ciò che chi gode dell’investitura popolare non può incontrare ostacoli di sorta. Come ci ha spiegato Rousseau (dal cui pensiero attingono, con ampia licenza “profetica”, i neopopulisti), il popolo è libero solo nell’attimo del voto, dopo torna subito schiavo dei suoi stessi eletti. Si capisce che l’ultimo pezzo dell’art. 1 della Costituzione (… che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione) non può che essere un antipatico refuso del processo costituente. E chi pensa di ravvisarvi, invece, l’essenza dello spirito repubblicano è meglio che si faccia vedere da uno bravo.

L’antico discorso sull’activae civitatis è stato perentoriamente rievocato da Tullio De Mauro nel 2004: “… basta dire che si svolgono libere elezioni per essere certi che questo sia un paese democratico? Ma come la mettiamo se questo sistema è esercitato in condizioni di analfabetismo diffuso, di diffusa incapacità di valutare i programmi?”. E’ noto (a chi?) il drammatico dato Ocse sugli analfabeti funzionali del nostro paese. Ben sette italiani su dieci hanno gravi difficoltà nella comprensione dei testi. Cinque milioni di persone non riescono proprio a leggere. Si capisce come quelle degli italiani siano, mediamente, opinioni preconfezionate o concetti grezzi presi in prestito da  maître à penser de’ noantri.

A tale desolante scenario va aggiunta la nostra secolare debolezza morale che consente il perpetuarsi del refrain autoassolutorio “così fan tutti”, e che porta a considerare il consenso popolare come un lavacro utile, persino, a compensare gli effetti di qualche condanna penale definitiva. Se poi il soggetto è anche scaltro e capace di raccontare barzellette surreali può ben ambire alla beatificazione in vita.

E’ evidente quanto questo monolite immaginifico, chiamato Popolo, sia incapace di scorgere quel bene che si ostina a voler ricercare, perché obnubilato da una complessità che il mondo non ha mai conosciuto, oltre che da una indegna mistificazione della realtà. Se a ciò sommiamo i nostri gap strutturali e la pressione migratoria cui siamo esposti, è facile capire come l’Italia si possa considerare il candidato ideale per ospitare la tempesta perfetta del populismo.

La tempesta, in effetti, ha generato non uno ma ben tre populismi, facendo di quello italiano un vero e proprio caso scolastico. Il telepopulismo berlusconiano ante litteram, per imbonitori d’annata, e a completamento della ricca offerta nostrana, il grillismo con la sua web “criptocracy” (non che gli altri scherzino; l’attuazione dell’art. 49 della Costituzione continua a restare una chimera), e il renzismo rottamatore di élite stantie. Senza contare il “parlare alla pancia” degli italiani di Salvini (in onore del quale non è stato ancora coniato il relativo eponimo, forse perché cacofonico) che con un linguaggio rozzo, primordiale, è in grado di evocare efficacemente scenari esiziali. Dall’Europa matrigna all’invasione dello straniero. Perché se qualcuno ha difficoltà a dar voce alle sue emozioni, visto che gli mancano persino le parole per dare un nome ai propri sentimenti, è chiaro che devi rivolgerti alla sua “pancia”, dove ristagnano gli istinti più malsani.

Se queste sono le condizioni strutturali, per quanto tempo ancora il “mercato” italiano della democrazia, fatto di una domanda sempre più disattesa dall’offerta politica e tempestato di “asimmetrie conoscitive”, potrà funzionare e reggersi solo sul rito messianico e purificatore delle elezioni quando, peraltro, il partito più rappresentativo è quello del non voto? Anche se la risposta può non essere scontata (in fondo, per i partiti meno elettori significano meno bocche da sfamare), questo stato di cose rappresenta di certo il peggio dell’ideale democratico, e i rimedi paventati sono peggiori dei mali che si vogliono curare.

Allora, come usciamo da questa lunga e fredda notte populista? In assenza di poteri divinatori, non ci resta che auspicare un cambio di rotta da parte di chi è impegnato nell’infimo tentativo di trasformare gli italiani in un popolo d’imbarbariti sociali pronti a tutto, anche a un insano e caustico bagno di oclocrazia. Che i partiti (o quel che di loro rimane, per voce della parte più degna delle loro classi dirigenti) e le istituzioni tutte si facciano carico della, oramai prescritta, funzione pedagogico-politica, e si tramutino in portatori sani del “disagio del pensiero” restituendo ai cittadini la dignità civile perduta. Il perpetuarsi dell’effimero scontro politico di superfice retto dall’antico inganno di irretire il popolo continuando a dirgli che è onnipotente, e che l’Europa e i famelici mercati attentano alla sua sovranità, non potrà che condurre al baratro. E’ già avvenuto nell’estate del 2011!

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Adrano e Biancavilla: una prospettiva comune

in Vincenzo Russo di

di Vincenzo Russo

E’ improbabile che il culto e la devozione per S. Placido e S. Nicolò Politi di biancavillesi e adraniti possano essere scalfiti da una possibile fusione dei due comuni. Le diverse identità –che pure esistono – e le specificità demografiche e territoriali, potranno essere preservate dai due distinti Municipi che continuerebbero ad esercitare le loro funzioni quasi come prima. E allora quale dovrebbe essere l’improvvida ragione di questo matrimonio, visto che non è di certo legata alla carente dimensione demografica? Beh, in effetti, la questione potrebbe essere ribaltata. Ovvero, perché due comuni contermini, che da un punto di vista urbanistico e territoriale sono quasi un unico blocco, devono essere completamente separati amministrativamente?

Perché fondersi in un unico Comune

Sia come sia, i potenziali vantaggi, noti in letteratura, sono di carattere economico e finanziario, oltre che politico amministrativo. Si tratta di maggiori economia di scala (minori costi nella gestione dei servizi), riduzione della spesa corrente e aumento di quella per investimenti (in tal senso depongono i pochi dati statistici a disposizione), della possibilità che si formino maggiori professionalità e livelli più alti di specializzazione dei dipendenti, e un maggiore peso politico complessivo nei rapporti con gli altri organi istituzionali. Si pensi alla pressione che una comunità di quasi 60 mila abitanti può esercitare, ad esempio, in merito alla tutela e al potenziamento della struttura  ospedaliera di Biancavilla, o alla possibilità di attivare forme alternative, magari esercitando le dovute pressione per la modifica dell’attuale, stringente, quadro normativo, di raccolta e gestione dei rifiuti urbani, con l’obiettivo della riduzione delle tariffe. Senza considerare l’unitarietà d’intenti nell’azione di programmazione urbanistica, delle attività produttive e nell’organizzazione delle infrastrutture, che renderà più spediti i processi decisionali e le attività realizzative. Un semplice esempio potrebbe riguardare la realizzazione di un’arteria di collegamento tra il viale dei Fiori e la S.S. 284, al fine di decongestionare dal traffico dei mezzi pesanti, e non solo, i due centri, favorendo nel contempo la logistica delle attività commerciali. Nella logica dell’armonizzazione e della condivisione dei servizi si potrebbe poi realizzare un’innovativa via di collegamento (anche sopraelevata) tra i due Municipi riservata a pedoni e ciclisti, quale grimaldello di una mobilità intelligente e alternativa. Molti studenti ne gioirebbero, e i facinorosi pedoni che pensano di uscire incolumi da via Casale dei Greci si sentiranno sollevati. Una linea di bus ecologici potrebbe garantire poi un collegamento continuo tra i vari punti nevralgici del nuovo ente.

A ciò si aggiunga che il decreto legge n. 95/2012 ha introdotto importanti incentivi finanziari, che si traducono in maggiori risorse a disposizione, per favorire il processo di riordino degli enti territoriali. Incentivi ulteriormente innalzati con la legge di bilancio 2017.  Con la legge di stabilità del 2016 (legge n. 208 del 2015)  sono state anche introdotte delle disposizioni di favore per quanto riguarda le risorse da destinare al personale. Il comma 229 (della citata legge), in deroga alla normativa generale, autorizza dal 2016 i comuni istituiti per effetto di fusioni, nonché le unioni di comuni, ad assumere personale a tempo indeterminato nel limite del cento per cento della spesa relativa al personale di ruolo cessato dal servizio nell’anno precedente. In pratica, sarebbe possibile sostituire tutto il personale che andrà in pensione, senza le limitazioni attuali. Sono fatti salvi solo i vincoli generali sulla spesa del personale.

Cosa prevede la normativa

La disciplina delle fusioni è attualmente contenuta negli artt. 15 e 16 del TUEL. Le regioni, compatibilmente con il disposto degli artt. 117 e 133 della Costituzione, hanno la possibilità di modificare le circoscrizioni territoriali dei comuni sentite le popolazioni interessate e nelle forme previste dalle leggi regionali. Sono proprio queste ultime a disciplinare, quindi, sia il procedimento legislativo per l’istituzione di nuovi comuni, sia le modalità di esercizio del referendum consultivo per le popolazioni interessate. In Sicilia la materia è regolata dalla legge regionale 23 dicembre 2000, n. 30, agli artt. 8 e 9. Il potere di iniziativa di tutto il procedimento può essere esercitato, alternativamente, dalla Giunta regionale, dai comuni interessati con deliberazioni consiliari adottate con il voto favorevole della maggioranza assoluta dei consiglieri in carica, o da un terzo degli elettori iscritti nelle sezioni di ciascuno dei comuni. L’Assessorato regionale degli enti locali, verificata la legittimità del progetto di fusione, autorizza la consultazione referendaria. Per quanto concerne il quorum di partecipazione il referendum è valido solo se i votanti rappresentano la maggioranza degli aventi diritto, e la proposta è approvata se ottiene la maggioranza dei voti validi. A seguito dell’esito favorevole alla proposta referendaria di fusione ha inizio il procedimento legislativo mediante la presentazione di una specifica proposta di legge al Consiglio regionale da parte del Presidente della Regione o della Giunta regionale. Determinante, a questo punto, è la volontà del Consiglio che deve approvare la proposta decretando, definitivamente, la fusione.

La necessità di una visione della città

Al di là degli aspetti sopramenzionati, il dato di maggior peso è legato alla possibilità che la fusione generi un esempio di virtù finanziaria e amministrativa con protagonista un nuovo grande Comune. E, ovviamente, di ciò non può esservi alcuna certezza ma solo un impegno fattivo. Le normali resistenze che tale ambizioso progetto di certo incontrerà, dovute a timori di cessione di potere, a spinte campaniliste, a diffidenze fondate sulla differente situazione finanziaria degli enti, a resistenze degli apparati burocratici, dovranno essere superate, oltre che con motivazioni di carattere tecnico ed economico, facendo leva sul suo significato ideale e politico. Il momento potrà costituire, infatti, l’occasione per rinsaldare, anzi, ricostruire i legami dell’obbligazione politica tra cittadini disillusi e assenti e amministrazioni soffocate da un asfissiante presente. Quella che bisognerà ricercare è l’adesione morale delle due comunità al progetto in modo da assicurare il consenso necessario alla sua realizzazione. Progetto che dovrà segnare lo spartiacque della rinascita economica del nostro magnifico territorio e dell’affrancamento culturale della sua popolazione. Se non scatta la molla ideale, il neofeudalesimo politico, da cui dipendiamo, con il solo scambio e le solite supercazzole televisive non arriverà mai da nessuna parte.

Troppo spesso si dimentica che l’obbligo primario di qualsiasi amministrazione è di offrire una propria visione della città e del suo futuro. Ci vuole un sogno da donare e carezzare. Essa non può perennemente farsi orientare dai signorotti del consenso spicciolo, o dalle società di mutuo soccorso degli “affari nostri”. Perché sono proprio questi che tendono a frapporsi alla realizzazione di idee di ampio respiro in grado di creare una forte identificazione diretta fra amministratori e amministrati. Una iattura che ne limiterebbe fatalmente il loro ruolo condizionante.

Per un nuovo corso …

Due elementi strategici potrebbero segnare la via: l’immediata qualificazione e implementazione di un’offerta turistica decente e l’impegno alla realizzazione di un polo universitario d’eccellenza, anche totalmente privato (un sistema efficiente di borse di studio garantirebbe pari possibilità ai meritevoli non abbienti), al riparo da pratiche baronali, clientele, e da ogni mefitica influenza politica. Una cattedrale indiscussa del merito e della produzione scientifica, nel cuore del mediterraneo, proprio alle pendici dell’Etna, che dovrà attrarre cervelli da tutto il mondo, e la cui presenza avrà un ricco effetto ricaduta tutt’intorno ad essa.

Si dovrà puntare all’attrazione turistica (con modelli già collaudati quali quelli dei piccoli distretti del Trentino), a calamitare le migliori risorse umane, e a trattenere in loco i giovani che non dovranno più essere costretti alla fuga. Quella della partenza dovrebbe essere una libera e legittima scelta e mai una costrizione che sa tanto di deportazione.

La pratica dell’accoglienza turistica, il pullulare di nuove genti e il fermento economico e culturale che ne scaturirà, produrranno comportamenti sociali emulativi verso l’alto e nuove possibilità per i soggetti svantaggiati. I nostri luoghi, e le relazioni che in essi si svilupperanno, potranno così permearsi di confronto, di fiducia, di cooperazione tra gli individui, e tra individui e istituzioni. In altri termini di senso civico e di appartenenza. Solo così, con l’importante contributo del sistema scolastico, si potrà pian piano sedimentare quello stock di capitale sociale, di cui siamo deficitari, che eviterà il progressivo, inesorabile, inaridimento e spopolamento del territorio. Tutto questo può sembrare troppo. Ma anche no. Proust ebbe a dire: “Il vero viaggio non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”.

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La peggiocrazia adranita

in Politica di

Diciamocelo pure chiaramente. Politici e amministratori locali sono lo specchio fedele della società che rappresentano. Uno straordinario esempio di corrispondenza tra rappresentati e rappresentanti. Ovviamente, esistono delle aree di non sovrapposizione che, però, non riescono a fare breccia in questo coerente schema. La nostra democrazia comunale, seppur con l’importante modifica dell’elezione diretta del sindaco (introdotta nel ’93), non ha certamente partorito esempi virtuosi. Se ciò non è avvenuto, la principale causa è da imputare all’incapacità dell’elettorato di scegliere per il meglio, pur nell’ambito della limitata offerta. D’altronde: “Si vuole sempre il proprio bene, ma non sempre lo si vede …” (J. J. Rousseau). La conquista del potere di scegliere direttamente la persona cui affidare le sorti della propria città, non ha prodotto gli effetti sperati, perché è mancata la capacità di valutare le reali qualità, l’affidabilità personale e il programma del candidato sindaco. Anzi, tali “carenze percettive”, unite alle condizioni di bisogno di tanti elettori, hanno favorito la personalizzazione della politica attorno al potere di soggetti dediti, talvolta in modo spregiudicato, alla creazione di strutture di consenso personale, con la promessa – peraltro raramente mantenuta – di alimentare gli appetiti di ogni possibile clientela. E, purtroppo, di fronte ad un corpo sociale e politico “acerbo”, chiuso a riccio sugli egoismi di ognuno, privo ancora del minimo sindacale di senso civico, non c’è legge, elettorale o non, che possa fare miracoli. In tal modo, non siamo riusciti ad avere un primo cittadino che abbia mai realmente assunto il ruolo di guida di un processo complesso di riconsiderazione della nostra identità e delle prospettive di sviluppo del nostro territorio.

I nostri amministratori non si sono mai posti, né avrebbero potuto, il dilemma della scelta: limitarsi a lasciar andare la barca, rispondendo alle emergenze, minimizzare i danni, e assicurarsi la piccola quota di autonomia decisionale e di risorse finanziarie necessarie per la propria sopravvivenza; oppure rinunciare a ciò e mettere le mani nella macchina amministrativa per migliorare l’efficienza degli apparati, vista la necessità del recupero di quote crescenti di risorse finanziarie direttamente da parte del Comune. E’ chiaro che, in quest’ultima ipotesi, sarebbero state necessarie delle capacità realizzative non indifferenti ed una forte volontà politica, visto lo scontro che si sarebbe generato con i burocrati e i mal di pancia di molti cittadini che non avrebbero capito, almeno nell’immediato, il perché di tale sommovimento. Non ci sono, infatti, abituati. Allora meglio darsi la mano e assecondare i propri istinti conservatori. Ognuno al posto suo. Al diavolo l’efficienza, i servizi e il risanamento finanziario. L’importante è prendersi cura delle proprie masserizie. Politici e burocrati uniti da un tacito patto di non belligeranza, contro ogni prospettiva futura.

La semplice presa d’atto del consiglio comunale, peraltro infarcita d’una retorica abominevole, della necessità di un piano di riequilibrio finanziario “suggerito” dalla Corte dei conti, che, di fatto, sancisce la nostra bancarotta, s’inserisce appieno nello scenario di perenne presentificazione in cui si muovono gli amministratori (il dissesto finanziario è sempre meglio farlo dichiarare da chi verrà). L’assenza di un progetto politico e l’ossessione per il loro immediato futuro, li pone, infatti, in una condizione di sudditanza rispetto ai vertici o ai semplici addetti delle strutture tecniche interne. E’ necessario l’appoggio dei tecnici per il proprio, personalissimo, futuro. E’ così che il non governo della cosa pubblica carica la collettività di ingenti costi finanziari e sociali riducendo, quasi azzerandoli, i margini di ogni azione amministrativa prossima.

In quest’abisso, però, la peggiocrazia potrebbe trovare degli ostacoli alla sua perpetuazione. La crisi finanziaria del Comune metterà, infatti, a rischio il finanziamento di molti piccoli privilegi che hanno alimentato il consenso sino a oggi. Se non ci sono incarichi da distribuire, se non è possibile favorire gli amici negli acquisti, nei piccoli lavori e nell’affidamento di servizi, a causa della necessità del contenimento della spesa, è probabile che il sostegno alla peggiocrazia venga meno. I due gruppi sociali che potrebbero essere, al tempo stesso, gli artefici e i primi beneficiari del cambiamento sono i giovani e le donne. I primi potrebbero essere motivati dal fatto di trovarsi a pagare il conto di un banchetto a cui non hanno partecipato. D’altronde, sanno di non poter più godere dei privilegi dei loro padri (a parte qualche giovane dalle tradizioni irriducibili). Lo stesso vale per le donne. La loro presenza non può più essere accettata come elemento decorativo. Grazie alle “quote rosa” potranno rivendicare con forza i loro diritti, ed entrare nel merito dei problemi. Le donne mostrano spesso più coraggio e capacità realizzative degli uomini. Entrambi, i giovani e le donne, hanno ben poco da perdere e tanto da guadagnare da un cambiamento di rotta. Proprio loro potrebbero spezzare il circolo vizioso del clientelismo che genera impoverimento e barbarie civile.

A lezione dal Canonico Bascetta

in Homines di

Dopo aver letto, con non celato interesse, il primo numero del giornale ho pensato fra me e me che Symmachia rappresenta l’ultimo virgulto – non certo per importanza, forse il più energico e diretto, di una rinnovata stagione di associazionismo adranita, dopo anni di torpore della coscienza civica.

Gli obiettivi dell’associazione e la linea editoriale della rivista lasciano ben sperare, poiché vanno verso la formazione di una nuova consapevolezza del Municipio. Questo è il motivo per cui ho deciso di dare questo mio spontaneo contributo al giornale.

Così come potrebbe far presagire il titolo, il mio non è, solo, un nostalgico ed edificante ritorno al passato, quando il fervore politico, l’eloquio brillante (spesso dialettale, la cosiddetta “parrata di padre Bascetta”) e la formidabile capacità e, forse, anche più importante, disponibilità, di contraddittorio (virtù fondante di qualunque comunità democratica, oramai sepolta dai lunghi, spesso indecorosi e patetici soliloqui televisivi di esponenti politici locali) di un giovane prete adranita, amico di don Sturzo, sfociavano impetuosamente nella piazza gremita di genti avide del proprio riscatto sociale e non solo. Quel consenso si aggregava sulla base di interessi collettivi della comunità adranita e di un’idea riformista ben precisa: saziare la fame di terra di braccianti e contadini con la divisione delle terre del latifondo e la creazione della piccola proprietà contadina.

D’altronde, non voglio tessere le lodi del personaggio che per questioni anagrafiche non ho avuto modo di conoscere personalmente, intendendo qui solo fare riferimento al suo documentato e testimoniato (diversi adraniti attempati lo ricordano ancora come il prete che diede le terre, anche se qualcuno di loro sottolinea, sardonico, che non erano quelle migliori; certo superare la diffidenza dei possidenti e convincerli a disfarsi da subito dei poderi migliori avrebbe avuto del miracoloso. Ma, i miracoli, ahimè, non erano prerogativa del nostro, il quale agiva sempre sulla base di presupposti reali e realistici) impegno sociale e politico, oltre che pastorale, anche se penso che tutte queste differenze il Canonico non le abbia mai fatte, essendo il suo operato un unicum inscindibile del quale la comunità rappresentava la dimensione costitutiva.

A voler narrare qualche dettaglio personale, pare proprio che per la sua forza di carattere, non amasse essere contraddetto. Ma, prima ho parlato di disponibilità al contraddittorio e non di sublimazione dello stesso. Se uno è realmente convinto delle sue idee, se attaccato non le svenderà al miglior offerente ma le difenderà con la forza delle sue argomentazioni. Certo, potrà capitare di farlo a malincuore, ma mai negando a priori il confronto. Voltaire disse qualcosa in merito il cui senso – non letterale – è questo: “Anche se non condivido ciò che dici, farò di tutto per garantire la tua libertà di espressione”. E visto l’andazzo suggerirei, però, di usare il buon gusto di provare, almeno, a comunicare realmente qualcosa a chi ha la gentilezza di ascoltare!

Ma allora qual è il punto? Ve lo riassumo in due parole: i partiti politici, schiavi del consenso immediato e, per questo, sempre più propensi a generare clientele e a cavalcare le condizioni di bisogno della gente, hanno fagocitato qualunque idea di interesse collettivo. Nei comuni ciò è equivalso alla soppressione di ogni tentativo di governo della polis, manifestazione per antonomasia della prima forma di democrazia, quella diretta della città-stato.

Non è un caso che del forte impegno municipalista di don Sturzo, nella sua Caltagirone, e della sua nutrita schiera di probi amministratori locali, tra cui il nostro Vincenzo Bascetta, si parli poco o niente.

Oggi il tormentone è il federalismo in salsa leghista, quello delle mille deleghe avvenire, di cui anche chi ne parla conosce ancora poco – e ancor di meno i numeri, e probabilmente tutti sanno, ma tacciono, che i comuni avranno poco di che stare allegri visto il serissimo rischio di rafforzare il potere di quelle straordinarie macchine mangiasoldi e centri di potere che sono divenute le regioni.

Già a fine ‘800, il giovane Sturzo, al pari di padre Bascetta – la differenza tra i due non sta certamente nell’impegno profuso e nella qualità dell’azione amministrativa locale, ma nella diversa collocazione e sfera di influenza che in Sturzo, per diversi motivi, è certamente più ampia – incominciò ad insegnare ai suoi concittadini cosa fosse un comune di uno Stato democratico. Al centro di tutto vi era il valore fondante della libertà della persona e della tutela della famiglia. La persona, la famiglia, il comune vengono prima dello Stato che, secondo il principio di sussidiarietà, spesso male interpretato o strumentalizzato, può essere solo uno strumento e non un fine. E’ chiaro che non era puro e semplice localismo. Quello che si limita alla propaganda della sagra del cacio cavallo di vattelapesca, per intenderci.

Il suo era il tentativo di far emergere dal particolare della vita cittadina, e dei rapporti che in essa si intrecciano, i principi di una vera democrazia. E l’impegno fu così convinto e costante – di certo i gravami romani legati alla nascita del partito popolare gli sottraevano non poco tempo – che egli, ripensando alla sua attività municipalista di Caltagirone, ebbe a dire: “Non capiscono niente coloro che sottovalutano questa mia attività”.

Allora i partiti non avevano assunto il ruolo di centralità che hanno oggi. Addirittura, i primi studiosi in materia di democrazia non ne facevano alcun cenno. Max Weber ricordava come l’esistenza dei partiti non era contemplata da nessuna Costituzione democratica e liberale fino al 1920.

Anche la nostra Costituzione si limita a considerare nell’art. 49 la, quasi timida, possibilità che i cittadini hanno di associarsi in partiti per concorrere, peraltro con metodo democratico – salvo dispense divine! – , alla determinazione della politica nazionale.

E allora da dove deriva il loro strapotere e la loro necessità di esistere e dettar legge in ogni ambito territoriale, financo nel piccolo e antico borgo di Carcaci?

La risposta è semplice, anche se non scontata, poiché gli argomenti necessari alla sua formulazione si scontrano sempre con la subdola retorica democratica, che alza la cresta soprattutto nei periodi più bui, quando vacilla l’idea di una sana e robusta rappresentanza popolare e con essa della legittimazione al potere della classe politica.

La democrazia essendo un contenitore vuoto, anzi pieno solamente di un metodo attraverso il quale si assumono le decisioni – quello democratico, per l’appunto – non è un valore in sé e non propone valori. Ciò l’ha resa particolarmente vulnerabile nei confronti delle sempre più pressanti spinte mercantiliste della società moderna, che con i loro parametri esclusivamente quantitativi – quelli monetari in testa – e di potere hanno colonizzato tutto il sistema politico e dei partiti.

Questi ultimi, infatti, da mera possibilità si sono trasformati in assoluta necessità, arrivando ad incarnare l’essenza stessa della democrazia decretandone, per certi versi, la fine. Essi, sotto lo scudo della libertà politica, caduti progressivamente vittima delle oligarchie e dei potentati economici del nostro paese, ne rappresentano oggi il loro braccio operativo.

Ed è proprio tale circostanza che fa venire meno uno dei presupposti essenziali di qualunque democrazia: il voto deve essere uguale. Purtroppo, così non è! Il voto non è uguale. Spiega, infatti, efficacemente, un certo Gaetano Mosca: “Cento che agiscano sempre di concerto e di intesa gli uni con gli altri trionferanno su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo fra loro”. Morale della favola, il voto del cittadino libero, non appartenente ad alcun partito, non infeudato, il cosiddetto voto d’opinione non conta nulla rispetto a quello organizzato.

E, siccome è probabile che a breve saremo chiamati alle urne, se qualcuno riproporrà la manfrina del voto utile, ovvero la preghiera di non disperdere il voto al di fuori di Pd e Pdl, ebbene non avremo di che meravigliarci! La logica è esattamente quella del voto disuguale che, in un sistema bipolare – anche se sbilenco – come il nostro, non può che essere esaltata.

Nel nostro piccolo, abbiamo dovuto sorbirci anche le sortite di chi faceva a gara nel tentativo di auto legittimare la propria appartenenza al Pdl – questa volta solo Pdl – totalmente dimentico del fatto che questo partito, nella totalità delle sue componenti, finiani compresi, ha battuto ogni record nell’approvare una serie di leggi tutte con l’obiettivo di risolvere i problemi di una singola persona. Sbaglio, o la “generalità” è uno dei requisiti delle leggi dello Stato? Bah, probabilmente sono io a essere “esagerato”, perché quello che realmente conta è riuscire a capitalizzare al meglio il proprio portafoglio voti. E dove vai, se il Pdl non c’è l’hai ….? Corri il rischio di sparire dallo scenario della politica che conta! Però, non so se Sturzo o Bascetta, avrebbero condiviso questo tipo di realismo politico! Ma credo, anzi ne sono convinto, che anche tra i contemporanei del Pdl stesso, ci sia chi nutre seri dubbi. Solo che rimane impantanato nella palude del degrado intellettuale e della soggezione nei confronti del capobastone di riferimento per paura dell’ isolamento o per imperitura gratitudine per chissà quale incarico o consulenza.

Comunque, i politici non sono tutti uguali – anche se quelli degni di menzione sono veramente pochi e non è per nulla semplice identificarli ed avere modo di apprezzarli – o criticarli – perché relegati spesso al margine e non sempre riescono ad avere la visibilità che meritano, ma vi assicuro che esistono. Non sono, però, così ingenuo da farvi nomi.

Allo stesso modo, penso che l’attuale nostra amministrazione comunale non possa essere paragonata a quella precedente. Se non altro, per la diligenza usata nella gestione della cosa pubblica e la maggiore perizia mostrata sino ad oggi nell’impiego delle scarse risorse finanziarie a disposizione.

Eh sì, perché checché se ne dica, l’amministrazione di un comune è fatta anche di piccole cose, piccole manutenzioni, la porta, la maniglia, la finestra, la sistemazione del chiosco, …. tutto tranne l’abbandono! Dichiarazioni roboanti e pretese faraoniche lasciano il tempo che trovano.

Comunque sia, ciò che a noi importa è che gli interessi della nostra comunità non vengano sacrificati sotto i pesanti condizionamenti di questa o quella segreteria politica e dei loro menestrelli o in nome di interessi particolari più o meno occulti.

Sappiamo che la politica locale, quella fatta di impegno civico e spirito di servizio, può prescindere benissimo da qualunque partito e trovare spazi alternativi. Basta coltivare quell’ampia area grigia inaridita dal disinteresse, da tornaconti personali e condizioni di bisogno che hanno offuscato ogni visione del bene comune. Insomma, meno partiti più società civile.

Non è concepibile che un ristretto numero di consiglieri comunali, trenta, debba appiattirsi sulle posizioni di due o tre gruppi consiliari. L’approvazione di un atto è meno importante delle sue stesse modalità. Il voto finale, positivo o no, è solo una sintesi. Quello che importa è la ricchezza del dibattito e l’intensità del confronto che la genera. Se necessario, il consiglio comunale deve essere capace di esprimere trenta diverse dichiarazioni di voto. Tutte giustificate da visioni differenti.

In una piccola comunità come la nostra ciò non è solo auspicabile. E’ assolutamente possibile. Si chiamerebbe, semplicemente, democrazia cittadina. E nel Medioevo è già esistita.

L’impegno che deriva dalla rappresentanza politica, quella autentica, non può che essere disinteressato. A buon rendere. Le tribolazioni e le carriere degli onorevoli o aspiranti tali, non ci possono impensierire; esse sono il frutto di una loro malintesa interpretazione, figlia del dilagante malcostume, che induce a sovrapporre la sfera privata a quella pubblica. Il rapporto tra eletto ed elettore si configura oggi alla stessa stregua di quello, privato, tra cliente e professionista (della politica). Quest’ultimo fa solo gli interessi del primo.

Lo spauracchio della mancata elezione o rielezione non può essere l’unico metro di riferimento dell’azione politica ed amministrativa. A volte può essere necessario assumere posizioni impopolari che rispondono, però, alle esigenze della comunità, magari quelle non a breve termine. “Il popolo vuole sempre il bene, ma di per sé non sempre lo vede” (Rousseau). E se non riesce a vederlo nemmeno chi amministra, perché accecato dal consenso, sempre e comunque, siamo belli e fritti!

L’impopolarità, se è il prezzo delle proprie idee, diventa allora anch’essa un dovere individuale e nei confronti della collettività, che trova, peraltro, il suo fondamento giuridico nell’assenza di vincolo di mandato di ogni eletto.

E, poi, il miglior servizio reso alla comunità è quello che si ricambia facilmente e si alimenta di forze nuove, capaci di contributi originali che possano travalicare la visione stantia dei soliti gerontocrati.

Dimenticavo. Speriamo che Fini decida di dare alla luce la sua nuova creatura politica al più presto così, l’Italia sarà un po’ più libera – meglio tardi che mai! – e con buona pace di tutti e, soprattutto, del Pdl paesano, ognuno avrà il suo bel simbolo. Per Adrano e gli adraniti non cambierà un bel nulla!

 

 

Foto: TVA

Cari Symmachi, mettetevi in salvo finché potete

in Vincenzo Russo di

Cari colleghi di giornale e di altre corbellerie idealistiche, pseudo-legalitarie, di impegno civile, bene comune e chi più ne ha più ne metta, adesso basta. Siete proprio fuori strada. Sì, avete capito bene, mi rivolgo a voi. Io non centro perché sono vittima di plagio. I miei lumi sono da tempo annebbiati dallo spirito di Symmachia continuamente evocato dal gran sacerdote Antonius, e dai potenti sortilegi della fata turchina e dei maghetti e fattucchiere di Uilas. Anzi, lancio un appello per la mia liberazione. Prego qualche anima pia perché faccia un’offerta (pagamento cash e in nero, s’intende). Se sarà congrua (la vedo dura!), vista la nuova stagione di matrimoni politici, chissà che non possa convolare a nuove e più feconde nozze. Voi no. Forse siete ancora in tempo. Non continuate a stare appresso alle solite, inutili, attività da apprendisti stregoni che servono solo alla vostra autocelebrazione. La gente comune (ammesso che si sia accorta di voi) vi considera una combriccola di idealisti petulanti, lontani anni luce dalla loro vita quotidiana. Distanti dai loro personalissimi problemi e dalla loro più grande debolezza: quella ad essere raggirati. Poiché siete incapaci di risolvere i primi e di approfittare dell’altra, rassegnatevi. Per la politica che conta (solo voti e interessi particolari) siete fuffa. Siete solo chiacchiere e distintivo.

Non pensate poi di poter incidere sulla nostra realtà sociale con il vostro giornalino. Le più recenti ricerche dicono che la stragrande maggioranza degli italiani non è in grado di leggere un semplice articolo di attualità. Se il contenuto è politico, gli comincia a uscire il fumo dalle orecchie. Per non parlare di economia che, normalmente, causa capogiri e allucinazioni. E ad Adrano non abbiamo motivo di sospettare che le cose vadano meglio. Vi conviene abbandonare ogni velleità illuminista (ammesso che ne abbiate mai avute). Se proprio volete continuare a stampare qualcosa, create una testata seria. Pensate a un nome del tipo “La Vetrina dei Misfatti”. Mettete da parte i disegnini ridicoli, gli argomenti scomodi, e i vostri articoletti dotti e pretenziosi che capite solo voi. Limitatevi a infarcirla di pubblicità redazionale (e non solo) e a fare uscire articoli compiacenti o di piccolo cabotaggio. E per piacere scriveteli in modo didascalico.

Riuscirete, così, a entrare nelle grazie di quante più

amministrazioni possibili, ricavandone preziosi oboli in forma di contributi che, all’occorrenza, potranno rimpinguare le vostre tasche. Sforzatevi, poi, di saziare quell’insana voglia di un lavoro ben fatto con l’effetto delle magniloquenti immagini a colori e la foggia patinata del nuovo giornale; che vi farà anche acquisire qualche nuovo lettore.

E allora, cari symmaci, è arrivato il momento di dedicarvi alle questioni che realmente contano. D’ora in poi dovrete avete cura di attuare quelle strategie che il buon senso vi avrebbe dovuto suggerire già da un pezzo. Prima ancora di pensare dove volete arrivare, individuate il politico (uno serio, capace di sparare minchiate supersoniche e di renderle credibili) o l’organizzazione, assolutamente profit, da servire e fatevi adottare. Non dovrebbe essere così difficile. L’importante è che vi scordiate del merito, perché (dovreste oramai saperlo) se andrete avanti non sarà grazie ad esso. Anzi, un basso profilo e la capacità di lavorare e servire nell’ombra saranno delle qualità agli occhi dei vostri capi. Una sana mediocrità è il miglior viatico per una carriera sicura. I mediocri (nell’animo) sono sempre bene accetti perché non danno problemi; dove li metti stanno; e, soprattutto, non discutono. Loro eseguono in silenzio e sono capaci di devozione. Quindi, se mediocri non siete, dovrete fingervi tali. Tutto questo non può scandalizzarvi. In fondo, cosa c’è di male nel tutelare i propri interessi?

Ah, dimenticavo. Se riuscirete a ricoprire il ruolo di dirigente in un ente pubblico (niente paura, per tale posto il concorso non serve più da un pezzo), una qualsiasi amministrazione che tira a campare può andar bene, dovrete aver cura di chiudere in un cassetto, insabbiare, il primo dossier importante che vi capiterà sotto mano. A costo di paralizzare un’intera città, il piano regolatore generale potrebbe fare al caso vostro. La velata minaccia di spifferare segreti inconfessabili sarà sufficiente a proteggere e rafforzare la vostra posizione.

Cosa aspettate, uscite dall’illusione. Il mondo (ir)reale dei Babbani vi attende. Un avvertimento: abbiate cura di tacere i vostri trascorsi da symmachi. Il rischio è che Voldemort e la sua cricca di Mangia-merito (a tradimento) vi facciano fuori.

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Usura. Contra natura ma ex lege

in Vincenzo Russo di

L’usura è sempre stata oggetto di condanna da parte di pensatori, scrittori e poeti. Aristotele, Dante, Shakespeare, Dostoevskij, Pound, Pirandello, sono solo alcuni tra quelli che hanno avuto qualcosa da ridire. A ciò si aggiunga la secolare tradizione cristiana che considera l’usuraio un ladro del tutto particolare: ladro di tempo. Il suo furto è particolarmente odioso perché ruba a Dio. Cosa vende in effetti l’usuraio, se non il tempo che intercorre tra il momento in cui presta e quello in cui viene rimborsato con l’interesse? Ma il tempo non appartiene che a Dio. Ladro di tempo, l’usuraio è un ladro del patrimonio di Dio. Grazie al purgatorio, però, anche l’usuraio che mostra un serio pentimento può salvarsi. E, d’altronde, la Chiesa non ha mai condannato tutte le forme d’interesse. La condanna assoluta dell’usura nel tredicesimo secolo fu essenzialmente dovuta all’elevatezza dell’interesse del prestito usuraio.

I grandi poeti hanno compreso e descritto la natura scandalosa dell’usura al pari o forse meglio dei teologi. Dante, che colloca gli strozzini tra bestemmiatori e sodomiti e li descrive come bestie accovacciate sulla sabbia resa incandescente da una pioggia di fiamme che tentano inutilmente di spegnere le fiammelle cadute, proprio nel secolo del trionfo dell’usura, dirà:

E perché l’usuriere altra via tene

per sé natura e per la sua seguace

dispregia, poi ch’in altro pon la spene.

In un tempo più vicino, nell’ombra dell’infame Shylock, ricco usuraio del “Mercante di Venezia” di Shakespeare, Ezra Pound afferma:

Usura soffoca il figlio nel ventre

arresta il giovane drudo,

cede il letto a vecchi decrepiti

si frappone tra i giovani sposi

                                   CONTRO NATURA.

Di solito si parla di usura al singolare. Ma l’usura ha molte facce. Già dal tredicesimo secolo appare in diversi documenti il termine al plurale: usurae; proprio a voler descrivere un mostro a più teste, un’idra. L’usura si presenta sotto forma di una molteplicità di pratiche, rendendo sempre difficile la fissazione di limiti giuridici tra il lecito e l’illecito nelle operazioni di prestito con interessi. Ed è per questo che nel 1996 intervenne nel nostro paese un’apposita legge; il lodevole intento era di mettere ordine e di stabilire dei limiti in una materia complessa e perfida come quella dell’usura.

Peccato che, nonostante la secolare, poderosa, levata di scudi contro l’usura, nonché una sempre maggiore presa di coscienza della società e delle istituzioni, il nostro legislatore ha avuto la spudoratezza di mettere il cappello su una perversa normativa. Il D. L. 70/2011 (che ha modificato la legge del ’96, mitigandone in parte gli effetti distorsivi) definisce, infatti, il tasso di usura come quello medio maggiorato di una certa percentuale. Con esattezza, dal 14 maggio 2011 il limite è pari al tasso medio segnalato dagli intermediari aumentato di un quarto, cui si aggiungono quattro punti percentuali. La differenza tra il limite e il tasso medio non può essere superiore a otto punti percentuali.

Ora, la conseguenza di tale automatismo è che se le banche decidono autonomamente (anche in modo subdolo e collusivo) di alzare i tassi, quello di usura viene spostato sempre più in alto con il solo limite dell’otto per cento rispetto a quello medio precedente. Il rischio è che le banche possano scegliere di fissare gli interessi sulla base del tasso soglia dell’usura (sensibilmente più alto di quello di mercato) magari diminuito di qualche punto, alimentando così continui rialzi. E stando a un articolo del prof. Beppe Scienza (pubblicato su il Fatto Quotidiano del 9 ottobre 2013) pare che una tale sciagurata prassi sia già adottata da qualche istituto di credito.

Probabilmente, i “vigili” parlamentari che hanno votato il testo di legge non si sono accorti (o cosa?) di essere complici di quel banchiere boia descritto da Pirandello nel frangente in cui con “la tremante delicatezza delle sue grosse mani” abbottona la camicia bianca intorno al collo del suo figliolo. Le stesse mani che domani strozzeranno il malcapitato.

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