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Controcultura

Liliana Segre ricorda Gerardo Sangiorgio: “diffuse sapere condiviso e critico”

in Controcultura/Homines di

“Gerardo Sangiorgio seppe resistere al ricatto di aderire alla pseudo-repubblica di Salò, covo di nazifascisti e antisemiti, pagando di persona con l’internamento nei campi di concentramento hitleriani, ma al ritorno passò la sua vita nell’insegnamento e coltivando la memoria a favore di intere generazioni di giovani”.

Così, la senatrice a vita Liliana Segre ricorda la figura dell’indimenticato professore di Biancavilla, Gerardo Sangiorgio, prigioniero di guerra numero 102883/IIA nei lager di Neubrandenburg e di Bonn/Duisdorf, scampato ai nazifascisti e poi rientrato a Biancavilla dove è stato saggio e discreto educatore di tanti giovani che hanno avuto l’opportunità di formarsi e di cogliere tratti di un’umanità grande, sopravvissuta agli orrori nazifascisti.

Alla sua figura, lunedì 28 gennaio, verrà intitolata l’Aula Docenti dell’Istituto Tecnico Tecnologico “Rapisardi” di Biancavilla, su iniziativa del dirigente scolastico, degli insegnanti e degli studenti. Proprio l’ex “Industriale” è stato l’istituto in cui il professore cattolico Gerardo Sangiorgio ha svolto gli ultimi anni di servizio scolastico, tra il 1974 e il 1978. Da qui, il messaggio di Liliana Segre agli studenti per sottolineare l’importanza della memoria.

Straordinaria figura dispensatrice di ideali preziosi e valori irrinunciabili che dovrebbero tornare ad essere la bussola per il nostro Paese, Segre ha sperimentato sulla sua pelle le persecuzioni razziali nazifasciste ed è sopravvissuta alle atrocità dei campi di concentramento, in cui è stata deportata, insieme al padre, all’età di appena 8 anni. Il binario 21 di Milano, da cui partivano i vagoni per i lager, oggi è meta di tantissimi studenti che rifiutano la dilagante indifferenza e l’oscurità culturale del momento. Il suo instancabile impegno per le giovani generazioni, è stato riconosciuto dal lungimirante Capo dello Stato Sergio Mattarella che, appena un anno fa, le ha conferito la massima onorificenza per un cittadino italiano: il titolo a vita di Senatore della Repubblica.

 

“Ricordo ancora quando nel 1938 ascoltai per radio la notizia della promulgazione delle leggi razziali. – scrive Liliana Segre agli studenti di Biancavilla – Per me fu un trauma realizzare che ero stata “espulsa” dalla scuola. Perché? Che cosa avevo fatto? Mi fu spiegato che “si trattava di una legge che aveva stabilito che tutti gli ebrei dovessero essere ‘espulsi’ dalla scuola e da molte altre attività”. Ma che sistema è quello in cui una “legge” può stabilire una cosa del genere?” Interrogativi che rimangono scolpiti nella mente della senatrice a vita e che, forse, difficilmente, potranno mai avere una compiuta ed esaustiva risposta.

Da qui l’appello di seguire il modello del professore Sangiorgio: “solo un sapere condiviso e critico mette nelle condizioni di evitare la ricaduta in certi errori ed orrori. E proprio in quanto apre la mente al valore autentico di termini come “tolleranza”, “accoglienza”, “interculturalità”, “solidarietà” ecc. Tanto più che oggi in Europa siamo costretti ad assistere a sempre nuovi episodi di antisemitismo, di razzismo, di xenofobia. A tutto questo bisogna reagire, senza mai abbassare la guardia. Reagire certo con la denuncia, ma appunto anche con la cultura e lo studio. Essi costituiscono infatti, oggi e sempre, l’estremo antemurale contro coloro che hanno la forza ma non la ragione”.

Parole e considerazioni sempre attuali anche perché “una legge razzista presuppone sempre un ambiente razzista. Presuppone cioè un regime violento e repressivo, ma anche lo svilupparsi di un senso comune alienato che porta ad accettare provvedimenti in altri contesti inconcepibili. Anche le ‘persone normali’ sono responsabili delle leggi razziste, perché sono responsabili di quei comportamenti asociali, discriminatori, offensivi, di quella connivenza e indifferenza rispetto alla violenza”.

Come la Segre, anche Gerardo Sangiorgio è stato “testimone diretto” della shoah. Lui che non cedette alla promessa della libertà in cambio della sua adesione alla Repubblica fascista di Salò e, per questo, fu catturato dai tedeschi a Parma, quando la caserma, in cui prestava servizio, fu letteralmente invasa dai nazisti. Fu ammassato in treni in condizioni infime: “un solo sportellino per prendere aria e gettare gli escrementi dopo giorni di viaggio”, sottolinea il figlio, Placido Antonio Sangiorgio che, qualche anno fa, fece dono al nostro giornale Symmachia di una sua riflessione.

“Come potevano – si chiedeva fino all’ultimo Gerardo Sangiorgio – i tedeschi che tanto amavano i cani, o che avevano tanta cura per gli uccelli, lasciare morire così gli uomini. Così crudeli e dal cuore di pietra di fronte a un principio universale, elementare”.

Infatti, è in quei luoghi senza umanità, i lager, in cui Sangiorgio sopporta freddo, fame, umiliazioni (dagli sputi allo spegnere le cicche delle sigarette sulla pelle delle persone).

Ad accompagnarlo, durante tutta la sua esperienza, la fede in Dio, più forte di ogni cosa. Spesso, nel luogo in cui Sangiorgio trascorreva le sue giornate, una mano lasciava scendere un contenitore della spazzatura: dentro qualche rimasuglio di cibo, un po’ di pane, un po’ di vita.

Finita la guerra, riuscì a tornare a casa: per giorni, senza sosta, ad attenderlo alla fermata della littorina c’era suo padre. Completò gli studi e si dedicò all’insegnamento. Dopo anni, ricevette un encomio come “Combattente per la Libertà d’Italia”, a firma del presidente Pertini l’orgoglio di non essere stato un “collaborazionista”.

“Mi sono chiesto più volte – dice il figlio di Gerardo Sangiorgio, Placido Antonio – cosa avrebbe pensato mio padre, se avesse saputo che un giorno la sua vita, o meglio la scelta che pregiudicò per sempre “gli anni più belli”, avesse riscosso tanta curiosità e interesse nelle aule di scuola, proprio tra i ragazzi, che alcuni decenni prima – e per generazioni intere -, aveva profondamente amato e a cui aveva voluto consegnare una lezione profonda e sofferta di vita”.

 

TESTO DELLA LETTERA DI LILIANA SEGRE AGLI STUDENTI DI BIANCAVILLA

 

 

 

 

 

L’arte vince sulle pietre contro la memoria

in Controcultura di

La bellezza salverà il mondo, ci ricorda Dostoevskij. E di bellezza ne abbiamo tutti bisogno, per contrastare l’oscurità dell’attuale momento storico che rischia di farci perdere di vista l’essenziale.

Nei giorni scorsi, il busto di Carmelo Salanitro, professore libero e antifascista convinto, è stato preso a colpi di pietra, nel Giardino della Vittoria di Adrano.

Per fortuna, rivive nel murales del giovane artista adranita Bread Pitto Nicolosi.

A proposito del triangolo della morte. Ai miei paesi: Adrano, Biancavilla, Paternò.

in Adrano/Bacheca/Blog/Controcultura/Gisella Torrisi di

di Gisella Torrisi

Cosa posso fare? Me lo chiedo da sempre, me lo chiedo ogni giorno appena sveglia. Se prima la rabbia, l’indignazione e la speranza erano il solo motore di reazione contro questa nera realtà, ora mi rendo conto che era un modo di agire sbagliato in cui si lascia spazio a quel Giudice severo che umilia la Vittima impaurita; è tutto un processo narcisistico dove si vede la perfezione dei principi opprimere la mente che invece vorrebbe solo imparare. È questa l’educazione che ci hanno dato: punizione, repressione, catalogazione ma tutto ciò è vecchio, limitante, sofferente e assassino.

E’ giusto credere nella lealtà, nel progresso, nella legalità, nell’imprenditoria dei principi del “buon padre di famiglia”… non continuo, questa lista perbenista la conosciamo in tanti. Sono stanca di sentirmi dire: lottiamo contro, lottiamo per, lottiamo… quanta ipocrisia? Il Giudice interiore si diverte a seviziarci e allora? Sensi di colpa a sottrarci il sonno.

È giusto, invece, credere che sbagliare oggi è l’unico sintomo di autenticità. Torniamo liberi. Sbagliamo e rendiamocene conto, lottiamo contro i nostri schemi mentali; liberiamo queste povere membra piegate. Volete veramente sprecare questa vita e morire di paura? Morire con la paura di essere stuprata, morire con la paura di essere rapinato, morire con la paura di non trovare lavoro; magari non avverrà mai ma in tanto questi schemi mentali ci portano a fare scelte che allo Stato piacciono tanto. Perché poi scendiamo senza far rumore in compromessi che per la maggior parte di noi sono normalità. “Non andrò a lavorare in quel quartiere, troppi immigranti. (Mi stuprano, derubano e chissà cos’altro.)” “Sì, non pubblicherò questo articolo perché mi hanno già avvisato e se perdo questo lavoro non ne troverò di certo un altro migliore.” “Va bene, do l’esame all’università senza neanche esprimere il mio parere sennò non lo convalido con il voto che vorrebbero i miei.” “No, non mi avvicino al piccolo bambino rumeno che è caduto per strada, potrebbe essere una trappola.” “Sono contro il femminicidio. Oh mio dio guarda quella che sta con un uomo sposato! Per alcune servirebbe una buona scarica di botte.”

Quante volte abbiamo sentito queste frasi? Quante volte le abbiamo pronunciate? Quante volte ci siamo solo arrabbiati? Di paura soffriamo tutti. Lavoriamo per rendere la nostra vita sicura e facciamo sempre la scelta più sicura. Lavoriamo, paghiamo le tasse, mettiamo al mondo figli e gli passiamo la solita vecchia e fallace morale: sii prudente. No, figlio mio, sii folle. Senti, vivi, ascolta e non fermarti davanti le apparenze. Prendi la tua rabbia e trasformala in energia positiva, tu puoi essere quello che vuoi e quello che vuoi è dato da ciò che senti, da ciò che vorresti fare. Non urlare contro a chi ti dice che gli immigrati ci portano via il lavoro, non difendere le tue idee con la loro stessa arma. Sorridi, fai esempi, cerca il dialogo ma soprattutto scopri quale paura ci sia dietro chi ti parla con quel solito volto teso, severo.

Sbagliare significa esperire la realtà per crescere, chi non sbaglia non cresce. Oggi e colui che giudica e continua a subire il giudizio rimane in un vicolo cieco e non si accorge di stare solo fermo in una strada inerte e senza sbocco. Ci vogliono a destra, a sinistra, pro e contro, al sud e al nord, ci vogliono giusti e arrabbiati, ci vogliono contro gli immigranti, contro gli uomini per essere donne, suddivisori di violenze per catalogo. Oggi si parlerà di stupro o di rapina? Quale notizia serve passare? Ricordare che la Mafia si trova in piccoli paesi di provincia? Sì, parliamo di quei relitti di società che si trovano in quella brutta provincia Catanese

che versa lacrime e sogni, che vuole un po’ di pace, che cerca una nuova rinascita.

Ma non lo vedete che siamo tutti brutti, spaventati, cattivi come dei bambini lasciati a bocca aperta? Che litigano fra di loro e non contro chi li opprime? Che parliamo con occhi pieni di pianto e digrignamo un volto di un adulto mai svezzato? Ma non lo vedete che abbiamo costruito un sistema che non si riesce a fermare? Più stiamo dentro questo schema di paura e più lui prende le nostre energie e gira e ci rigira e non si ferma.

Scendiamo da questo treno, partiamo dall’accettarci, partiamo dall’ascolto. ASCOLTIAMOCI. Io non sono solo contro la Mafia, sono in primis contro lo Stato. Questo Stato vecchio pieno di una morale apparente e con un vuoto dentro a divorarne l’esistenza. Una realtà fatta di finti adulti che rimproverano con volti grigi.

Io sono per uno Stato nuovo, quello che forse ancora non riuscite a vedere ma che si sta schiudendo, uno Stato consapevole e che ha smesso di rimproverarsi e ha iniziato a sorridersi e dire: abbiamo provato così e non ci siamo riusciti, proviamo così e vediamo se questa è la nostra strada, sperimentiamo a favore di questa logicità d’azione, sperimentiamo a favore della libertà.

Io non mi schiero contro i miei paesi, io mi schiero contro quella parte di me egoista che si vuol sentire migliore, io mi schiero contro quella parte di me qualunquista che si siede a tavola e fa la sua morale, io mi schiero contro il vecchio modo di pensare. Io l’abbraccio e gli dico: basta stare dalla parte della ragione, è ora di stare dalla parte del Vero. Sapete benissimo cosa fa la democrazia informativa, lo sappiamo tutti: mette i poveri contro i poveri. Io non credo alla tv, l’ho spenta a quattordici anni e se oggi mi capita di vederla capisco che quello è spettacolo, è business e non solo: non è la mia realtà. Quella realtà che ha bisogno di persone competenti, positive, dinamiche e che non hanno paura.

Io rivoglio il mio potere personale e me lo riprendo giorno dopo giorno, guerra dopo guerra. E voi cosa aspettate? Spero che i miei fratelli là fuori, quelli “bravi” della parrocchia, quelli stanchi, quelli che “penso a me tanto non cambia niente”, quelli che “è colpa dei genitori”, quelli che “i giovani d’oggi”, quelli brutti della “vanedda”, quelli in carcere, quelli malati, quelli umiliati, quelli che “guarda quello”, quelli costretti lontani dalla sua terra, quelli “pentiti”, quelli che si pentiranno, quelli che sognano, quelli che ci credono… spero che tutti noi possiamo riavere questa grande capacità di scelta:

cantare fuori dal coro, tornare al Vero e comprendere il Falso.

Questo non è un triangolo di morte, questo è un triangolo di Rinascita se solo tu ci credi. Io e tanti altri ci crediamo, Symmachia ci crede.

Sicilia: il sogno di chi parte, l’incanto ritrovato di chi torna

in Controcultura di

di Costanza Di Quattro*

Eravamo ventitré, lo ricordo perfettamente. Ventitré bambini con gli occhietti sgranati e le orecchie ritte ad ascoltare.  La quarta elementare aveva quattro finestre di cui due guardavano la catena montuosa degli iblei e le altre due si aprivano davanti alla chiesa di San Vincenzo Ferreri, trionfo di rara bellezza barocca.  La maestra spiegava la geografia (sarà questo il motivo per cui ancora oggi stento a distinguere il Giappone dalla Cina) e quando arrivò in Lombardia disse  “E adesso bambini ascoltate bene: il capoluogo di regione della Lombardia è Milano, quando finirete di studiare a 18 anni se vorrete avere lavoro e tanto successo dovrete andare lì”.

Ecco come nasce un mito, una leggenda o forse meglio dire una bugia.  Milano assurgeva nella generazione dei nati fra il 70 e 90 ad una moderna città dei balocchi dove per balocco non si intende più il gioco, la perdizione (viva Dio) o la distrazione dagli impegni bensì il successo. Spasmodica e conturbante ricerca del successo.  Milano, la capitale della moda, è anche la capitale dell’economia, dell’efficienza, del “lavoro guadagno, spendo pretendo” dei treni ad alta velocità, delle metropolitane che corrono sotto terra veloci come talpe scatenate. È la città dell’happy hour, dello street food, dei tram, della fretta, delle bottigliette d’acqua a destra e della Luis Vitton a sinistra. È la città che non dorme, che offre tanto e costa ancor di più.

Ma soprattutto è la città delle grandi Università. Vai, studi, ti laurei, lavori, guadagni, ti sposi, fai figli che a loro volta seguiranno lo stesso andamento che, seppur frenetico, rimane sempre lento.  Eppure, o le maestre condizionavano meglio le scelte di quanto non facciano oggi, o la moda della fuga aveva preso anche i genitori, fatto sta che molti, moltissimi, troppi dei miei compagni all’inesorabile scadere della maturità fecero un biglietto, per lo più di sola andata, e portarono un pezzo consistente di Sicilia al nord.

Nessuno mai disse loro: “Restate, c’è tanto da fare, tanto da investire ma soprattutto tantissimo su cui sperare”. Per lo più i “milanesi” in pectore tornavano a Natale, Pasqua no perché piuttosto di gongolare alla sola idea delle impanate andavano a sciare e poi in estate, stanchissimi e molto infastiditi dalla lentezza dei siciliani.

Già al primo Natale facevano precedere l’articolo determinativo al nome proprio di persona. Pazienza: rarissime cose risultano insolenti e intollerabili ai siciliani come “la Costanza, il Marco, la Gianna, il Giuseppe”. Il secondo Natale andava meglio, l’articolo era sparito ma aveva lasciato un po’ di spazio all’accento e ai verbi tronchi “andiam, facciam, corriam”. Il terzo Natale era il migliore. Intanto includeva la promessa del “ci vediamo a Pasqua” e poi si riaccennavano tonalità sicule, certo un po’ violentate dalle vocali chiuse, ma pur sempre riemergenti.

La generazione che è partita e, purtroppo come nella peggiore campagna di Russia non è mai ritornata, è la generazione a cui è stato negato l’orgoglio della propria terra ed è rimasto solo il pregiudizio. È una generazione che ha perso la cultura della propria lingua e quindi, inevitabilmente, le radici della propria storia.  Io, per indolenza o forse per eccessivo slancio di cuore nei confronti del mio mondo, ho disertato l’invito all’esodo e sono rimasta ad aspettare ciò che adesso, con sapiente saccenza e discreta ironia comincio, lentamente, a vedere.

E vedo che la crisi, come tutte le crisi, ha sviluppato un grandissimo senso di capacità manageriale. E vedo anche che in molti ritornano, finalmente, per investire.  Molto spesso allo stipendio fisso da ripartire in toto tra affitto, cibo e mezzi di trasporto, preferiscono l’azzardo dell’avventura imprenditoriale. Si inventano e reinventano. I migliori sfondano, gli altri tirano a campare ma almeno qui ci riescono. E poi si ristorano guardando un cielo terso macchiato di pietre dorate che svettano sui campanili gialli, o tuffandosi nella pausa pranzo (che spesso vivevano sulla panchina di un tram) in un mare cristallino a pochi minuti da qualunque lavoro.

Ritornano come dopo una diaspora nel suolo paterno perché mossi, chissà, da un rimorso ancestrale; o forse da un richiamo lontano e potente che li artiglia per la gola.  E non si muovono da soli, no. I siciliani coinvolgono e incantano. Raccontano della Sicilia come di una terra misteriosa e segreta, nei loro occhi si riflette il mare, nei loro colori la luce di un sole prepotente, nelle loro movenze l’agio e le memorie di millenni di storia. Raccontandosi, oltre a riportarsi in terra natia, si portano dietro un discreto e sempre crescente numero di milanesi o nordici in generale che, incantati dal mito, hanno deciso di scendere, come Annibale dalle montagne, e conquistare, benevolmente, i luoghi reconditi di Sicilia.

E cosi camminando fra vigneti e muri a secco, fra carrube e cavalieri, di tanto in tanto si intravede un casolare ristrutturato, una piscina azzurrissima, un campo da tennis, filari di buganvillea, roseti fra gli ulivi secolari e tanto, tantissimo ordine. Sono le case di una nuova categoria, quella di chi vede nella Sicilia un luogo esotico e magico talmente magico da investirci su e comprare, ristrutturare, svernare e villeggiare.

È vero, sono un po’ bizzarri. A volte, arrivano in Sicilia come i conquistadores pieni di preconcetti ma poi si innamorano perdutamente di ogni cosa, anche di tutte quelle cose che per noi sono così scontate da risultare banali. Si stupiscono di tutto, si incantano come bambini, guardano alla ricotta come ad una divinità antropomorfa, al mare che lambisce la porta di casa come all’horror loci, alle vecchiette in chiesa come comparse di un film alla Pietro Germi. Sono teneri talune volte nel loro cercare di comprendere il siciliano o addirittura provare a parlarlo. Per loro è tutto “pazzesco e straordinario”, ogni tanto lamentano un po’ di inefficienza e rifuggono tenacemente la cosa pubblica preferendo il contatto con il privato, del resto come dargli torto.

A questi villeggianti moderni, chic e solitari, va riconosciuto il coraggio di aver investito in una terra difficile e un grazie per avere scelto, con gusto, un triangolo di struggente bellezza e fascinosa armonia.

Le loro case sono magnifiche combinazioni d’arte da nord a sud, svettano teste di moro piene di insalate di avocado, troneggiano sui candidi buffet sushi e scacce di pomodoro.  Il Cerasuolo di Vittoria va a braccetto con il Gewurtztraminer e il risotto alla milanese si abbraccia con l’arancino al ragù, come chiara testimonianza del fatto che siamo tutti figli della stessa madre.  A loro va l’indiscusso merito di amarci, a noi quello di saperci fare amare. Restiamo quindi e se proprio vogliamo andare via quantomeno torniamo. Perché al pessimista che, magari disperato, si ostina a sostenere che in Sicilia “Dio è morto”, noi rispondiamo con disincantato ottimismo: “Ma non era risorto?”

IlFoglio

New wawe ed Italia, si ricongiungono nel capolavoro “Desaparecido” dei Litfiba

in Controcultura di

di Pietro Bonanno

L’Italia, notoriamente, non è mai stato un paese all’avanguardia in campo musicale, o perlomeno non lo è mai voluto essere.
Mentre nel resto d’Europa e in America, a cavallo fra la seconda metà degli anni ’70 e i primi anni ’80, si sviluppavano generi e sottogeneri che si presentavano come una risposta al punk (post-punk e new wave), nel Belpaese spopolavano le canzonette tipiche del festival sanremese.
Città come Firenze, Roma, Torino ed altri grandi centri urbani del resto d’Italia (compresa Catania) svilupparono produzioni indipendenti di musica alternativa, a causa della scarsa attenzione che le grandi etichette davano ai generi considerati “non popolari”.
A onor del vero, i gruppi alternative dell’epoca faticavano a comporre musica in lingua italiana, ritenendo quest’ultima inconciliabile con generi musicali come il rock.
Di conseguenza, data la scarsa diffusione, al tempo, dell’inglese, questi tipi di produzioni musicali avevano un pubblico di nicchia.
Nella mappatura della musica underground del tempo, Firenze si poneva come capitale della new wave italiana, grazie a gruppi come “Diaframma”, “Neon” e soprattutto “Litfiba”.
La formazione dei Litfiba dell’epoca era di prim’ordine: Ringo de Palma alla batteria, il “duca” Antonio Aiazzi alle tastiere, Gianni Maroccolo al basso (il più grande bassista italiano ogni epoca), Ghigo Renzulli alla chitarra e per finire un giovane Piero Pelù, forse il miglior interprete del ruolo di frontman che l’Italia abbia mai avuto.
Il 1985 è l’anno in cui la musica rock italiana cambia, esce il primo album dei Litfiba.
Esce Desaparecido.
Questo può essere considerato il primo album rock italiano a diffusione nazionale.
I testi, rigorosamente in italiano, risultano talvolta difficili da interpretare (il successivo “17 Re” raggiungerà l’apice di “misticità lirica” del gruppo fiorentino), e presentano spesso una carica quasi ascetica, ricca di riferimenti sociopolitici, diametralmente opposti ai testi faciloni che hanno contraddistinto i Litfiba da “El Diablo” in poi.
Al tempo, il duopolio Pelù/Renzulli non aveva ancora preso il sopravvento e tutto il gruppo prendeva parte alla scrittura e alla composizione di testi e musica.
Il ruolo di Maroccolo e di Aiazzi è fondamentale, diverse canzoni, infatti, sono rette dal contrapporsi di basso e tastiera, mentre il ruolo della chitarra, in brani dal tono più intimo, come “Pioggia di luce” o “Lulù e Marlene”, è limitato ad un mero cesellamento.
Il chitarrista avellinese, tuttavia, non è affatto un comprimario, anzi, l’opening di “Eroi nel Vento” è una scarica energica di stampo post-punk, con richiami alla The Edge, alla quale segue una vivacissima “La Preda”, in cui possiamo trovare Renzulli al suo massimo.
“Istanbul” si apre con il synth di Aiazzi, che ripete continuamente il giro di tastiere in salsa duraniana, e le linee dure del basso di Maroccolo.
Pelù considera Istanbul il simbolo dell’incontro mancato fra due culture: quella occidentale e quella orientale.
La passione per la cultura gitana di Pelù viene celebrata nella bellissima “Tziganata”, seguita da “Pioggia di luce”, brano di difficile interpretazione, anche a causa del fatto che, a detta di Pelù, è stata scritta “con l’aiuto costruttivo dell’acido lisergico, durante sedute psichedeliche organizzate con Ringo”.
Si arriva poi alla title track.
Il Pelù di “Desaparecido” è lontano dall’impostazione gigionesca che darà al suo canto dal 1989 in poi, risultando qui molto impostato e serioso, in pieno stile new wave.
Il cantante evidenzia la caducità dell’uomo che, a differenza di elementi immutabili come terra e acqua, tende a perdere facilmente la propria dignità e la propria personalità facilmente, come altrettanto facilmente i regimi militari sudamericani distruggevano le vite dei giovani desaparecidos.
Chiude l’album “Guerra”, il primo inno antimilitare dei Litfiba.
L’intro cupa in continuo divenire, il canto rabbioso di Pelù, il synth inquietante di Aiazzi, le linee aspre del basso di Maroccolo, la batteria dell’incessante Ringo e la chitarra vorticosa di Renzulli rendono questa canzone una delle più interessanti e sorprendenti dell’album.
Desaparecido è un album qualitativamente privo di critiche, dove l’unica nota dolente (forse la più importante) è la produzione, affidata ad Alberto Pirelli.
La durata dell’album è troppo esigua (34 minuti circa), nonostante i Litfiba avessero già composto una ventina di singoli di grande spessore (LunaVersante EstElettrica DanzaOnda Araba, Transea), che avrebbero sicuramente incrementato la già alta qualità del disco.
Oltre ad un’eccessiva scrematura dei brani, non fu particolarmente azzeccata la scelta della copertina, che con quei sassi, decade nel completo anonimato.
A causa di queste scelte discutibili, non furono pochi gli scontri fra Pirelli e Maroccolo, personaggio eccentrico, dal carattere molto forte, scontri che contribuiranno certamente all scioglimento della formazione originale dei Litfiba nel 1989.
Desaparecido è il primo album della cosiddetta “Trilogia del Potere” (Desaparecido, 17 Re, Litfiba 3), una stagione musicale che va dal 1985 al 1988, in cui la band fiorentina diventerà una delle migliori band new wave in Europa, se non la migliore.
I Litfiba riusciranno successivamente a superarsi con lo splendido album “17 Re”, apice della carriera della band fiorentina, per poi riconfermarsi con “Litfiba 3”.
Tuttavia dal 1989, in seguito alla morte per overdose del batterista Ringo De Palma, e alcune divergenze interne, la formazione originale si scioglierà, lasciando al duo Pelù/Renzulli la direzione dei lavori, con Maroccolo che prenderà una direzione diversa e Aiazzi declassato a semplice turnista durante i vari tour.
Paradossalmente il periodo più “frivolo” dei Litfiba(da “El Diablo” in poi), caratterizzato da un rock popolare/mediterraneo, sarà il periodo più fruttuoso in termini di apprezzamento da parte delle grandi masse della band.
Personalmente preferisco il Pelù, animale da palco, del CD/DVD live “12/5/87 Aprite i vostri occhi”, disco che per gli amanti dei Litfiba vecchio stampo, e in generale per gli amanti del dark anni ’80, è oggetto di cult.
Desaparecido è un disco originale, fresco, eterogeneo e con messaggi profondi che sicuramente entra a far parte delle pietre miliari della musica italiana.

“Non sarò eroe,
Non sarei stato mai.
Tradire e fuggire
È il ricordo che resterà.” (Eroi nel Vento)

On the road with U2, viaggio tra i successi della band irlandese che ha segnato la storia della musica rock

in Controcultura di

di Pietro Bonanno

Siamo nel 1985 e gli U2 sono una delle band di maggior rilievo di tutto il mondo.
Il successo di “The Unforgettable Fire”, prodotto da Brian Eno, ha spinto la rivista “Rolling Stone” a definire il gruppo irlandese “il miglior gruppo degli anni Ottanta”. Tuttavia manca quel tanto che basta affinchè questa band possa essere finalmente considerata fra i giganti del rock.
Detto fatto, arriva il capolavoro.
Bono e soci, per il nuovo album, si allontanano dalla cupa e grigia Dublino, la stessa che ha visto nascere capolavori come “New Year’s Day”, “Sunday Bloody Sunday”, “I Will Follow”, per approdare nella tanto desiderata America, dove i quattro dublinesi intraprenderanno un viaggio che cambierà quasi nettamente la prospettiva che essi avevano nei confronti degli USA.
E’ per i deserti della Death Valley che nasce “The Joshua Tree”.
I brani sono un amalgama fra le sonorità post-punk del loro periodo post-adolescenziale (Boy, October e War), e le nuove esplorazioni country/blues/rock  caratteristiche della musica americana.
Le liriche sono ispiratissime, influenzate anche dall’incontro con il “mahatma” Bob Dylan, in cui Bono ammise di aver provato  sensazioni fortissime (chi non si scioglie dinanzi alla poesia del cantautore di Duluth, Minnesota).
Sono ancora lontani i tempi in cui il cantante diventa la parodia super-buonista di se stesso, qui la denuncia sociopolitica è ancora sincera ed aspra, accresciuta dalla delusione per aver preso atto dell’altro volto degli USA, quello opaco e torbido delle amministrazioni Carter/Reagan.

L’apertura è epica.
“Where the streets have no name” si apre con l’arpeggio della chitarra di The Edge, quasi un folk elettrico, seguito da una prestazione vocale di Bono eccellente, come in tutto l’album, del resto. Il testo sarebbe ispirato ad un’antica storia riguardante Belfast, nella quale è possibile identificare lo status  economico e sociale di una determinata persona in base al luogo in cui quest’ultima risiede.
Bono immagina una città ideale, senza strade che identifichino la personalità di ogni individuo, e quindi, senza disparità: tema classicamente U2.
“I Still Haven’t Found What I’m Looking For” il brano seguente. Un gospel rock in cui la tematica principale è la fede in Dio e la difficoltà dell’uomo nel mantenere saldo il proprio credo in quest’ultimo.
Cucinato nella stessa salsa “With Or Without You”, forse il brano più celebre (non troppo meritatamente) dell’album, qui le corde vocali di Bono e le corde della chitarra di The Edge si inseguono e si intrecciano creando una delle hit più famose della storia degli U2.
“Bullet the Blue Sky” è una delle canzoni più belle e controverse dell’album. Il testo è una velata protesta contro l’amministrazione in politica estera dei presidenti Carter e Reagan nei confronti di paesi “minori”, come Nicaragua ed El Salvador, in cui il cantante poté toccare con mano i risultati della campagna di neutralizzazione economica e strutturale operata a danno di tali paesi, durante un viaggio intrapreso insieme alla moglie in Sudamerica. Il brano si apre con la batteria e il basso di Larry Mullen e Adam Clayton che ripetono continuamente gli stessi accordi, la chitarra “disturbata” di The Edge è accompagnata dal canto rabbioso di Bono. Uno di quei brani che dal vivo rendono ancora meglio.
“Running To The Stand Hill” narra della dipendenza dall’eroina di numerosi giovani dublinesi e, più in generale, della difficoltà della maggior parte dei giovani del tempo a distaccarsi da questo tipo di droghe. Musica e testo raggiungono alti livelli di  commozione.
In “Red Hill Mining Town” il canto disperato di Bono, sicuramente al suo massimo storico, narra la difficoltà dei minatori nello svolgere il proprio lavoro, oltre che le difficoltà occupazionali del settore negli anni ’80. Il testo stavolta è composto dal bassista Adam Clayton, figlio, appunto, di un minatore.
Con “In God’s Country” si passa al lato B dell’album. Il brano si svolge seguendo la falsa riga di Where The Streets Have No Name, dal quale scopiazza anche l’intro, ma che nonostante l’ottimo lavoro svolto si dimostra, forse, il brano più debole di The Joshua Tree.
“Trip Through Your Wires” è il brano più “statunitense” dell’intero l’album: un mix fra blues e country, accompagnato da un testo accattivante, danno una caratura più movimentata  al brano. Tratta della sensazione di oppressione a cui si va incontro quando si affronta una relazione con una donna, ma che dalla quale non ci si può assolutamente distaccare.
“One Tree Hill” è la canzone più emozionante ed intima dell’intero disco. Dedicata all’autista della band, morto in un incidente stradale in moto, qui i quattro dublinesi danno il meglio di se. Le splendide colline di One Tree Hill, Nuova Zelanda (terra natia dell’autista), ispira le liriche e gli arrangiamenti della canzone e ciò che nasce è  una splendida commemorazione per l’amico defunto.
“Exit” è uno dei capolavori assoluti dell’album, di certo la composizione più cupa.
Il brano è quasi un’opera drammatica, in cui viene rappresentato lo stato d’animo e le emozioni che prova un assassino prima di commettere un’ omicidio.
Il clima è cupo, oppressivo, le linee di basso e di chitarra si ripetono all’infinito, ed il canto di Bono è ansioso e quasi inquietante: capolavoro.
“Mothers of the Disappears” è l’undicesimo ed ultimo brano dell’album. È un commovente omaggio alle madri di Plaza de Mayo, ed allo stesso tempo si presenta come  critica forte nei confronti del fenomeno dei desaparecidos in Argentina. Piccola chicca:  l’intro della canzone si apre con il synth suonato proprio da Brian Eno:
degna chiusura di un album irripetibile.

The Joshua Tree è forse l’apice della carriera degli U2, sicuramente l’album più ispirato.
Nel bene o nel male, questo disco sarà lo spartiacque per il gruppo: da qui in poi il mondo amerà o odierà la band di Dublino, in seguito a discutibili scelte commerciali e musicali.
Di dischi così importanti e soprattutto diffusi (23 milioni di copie vendute) ne usciranno, ben pochi. Musicalmente parlando, l’album, è una delle ultime gemme degli anni ’80, in cui il panorama musicale è saturo di band mainstream e di gruppi TV-friendly, infatti da lì a poco si abbatterà il ciclone Nevermind, Nirvana, che cambierà totalmente e, direi definitivamente, la scena rock mondiale.
The Joshua Tree è una pietra miliare della musica in generale, tuttavia il merito più grande degli U2 è quello di aver creato un opera dalla quale possono attingere (e hanno attinto) sia i giovani degli anni ’80, sia i giovani di oggi. L’attualità del disco anche ai nostri tempi è la dimostrazione che il mondo è difficilmente mutevole, e le speranze per un cambiamento sincero sono esclusivamente riversate sulle spalle dei giovani. Gli U2 non sono altro che il riflesso di milioni di giovani che esprimono tutta la propria rabbia e tutta la propria delusione in un opera spettacolare qual’è The Joshua Tree.
Perché se purtroppo un mondo senza strade e senza disparità è davvero impossibile, mio caro Bono, per 50’11” mi hai fatto credere che fosse possibile.

L’arte nella insabbiata in onore di san Nicolò Politi

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La prima Insabbiata ad Adrano raccontata da alcune foto di Gisella Torrisi e dall’intervista (improvvisata) di Fernando Nicosia all’organizzatrice dell’evento e coordinatrice artistica, la nostra Sara Ricca. Vedrete in questo video la spontaneità dei ragazzi di Symmachia che dopo il Laboratorio Sociale di Performazione (tenutosi ogni domenica presso la nostra sede) si sono ritrovati reporter in un meraviglioso pomeriggio alla villa di Adrano. I temi della lezione di ieri, domenica 07 maggio, sono stati: responsabilità e trasparenza, leggerezza e profondità. Chissà se questo non sia lo spunto per un telegiornale… sarebbe sicuramente fresco e autentico come i nostri cari ragazzi.
Viva il cambiamento! Rendiamo vivo il nostro paese.

*Foto di copertina di AdranoDreamers

“Con tutta la rabbia, con tutto il cuore”, al via laboratorio Symmachia

in Controcultura di

di Gisella Torrisi

Non bisogna lavorare per un mondo migliore, erriamo a pensare che tutti i nostri buoni ideali possano giovare al cambiamento della realtà esterna. Non bisogna lavorare per rendere il paese in cui viviamo migliore, stiamo solo illudendoci, aumentando in noi la sete di fallimento, che purtroppo si dirama dentro ogni essere umano incompleto. Non bisogna credersi così importanti, giusti e coerenti.

Bisogna lavorare su stessi e tornare persone autentiche. Bisogna prendersela con se stessi e non con gli altri, bisogna smettere di giudicare e andare ancora più nel profondo, bisogna che la nostra mente finalmente accolga la natura in noi. Bisogna essere davvero interi e liberi per riuscirci. Cos’ha da dirci il nostro corpo? Unica risorsa naturale che ci rimane. Perché ormai anche il pensiero è stato contaminato dal perseguimento di un circuito sociale?

Dov’è la vera strada da seguire?

La politica ha dimostrato di aver fallito, più e più volte. E noi? Vogliamo seguire questi ideali plastificati? O seguire la vera verità? Quella che accoglie, risolve e costruisce.

Cosa ci ha dato il nostro tanto ribellarci? Cosa ci hanno insegnato i nostri ideali? Perché non funziona quello che facciamo? Forse perché dobbiamo prima rivoluzionare tutto il nostro regno fisico e mentale? Sì, proprio così. Dobbiamo ascoltarci, solo così troveremo la soluzione.

Non bisogna credere senza prima essere, bisogna essere lo stesso credo per cui si lotta. Bisogna essere.

E quando si arriva a questo bisogno, a questa necessità, comprenderemo che in fondo le persone che etichettiamo negative sono solo frutto di una mercificazione politica a cui diamo ancora fiato. La politica è vita, questo mi ha insegnato il professore Cacioppo e dunque, io stessa debbo tornare in vita, ogni giorno. Devo cambiare la mia realtà interiore ogni santissimo giorno, e solo così potrò dare una vera ed utile mano a questa terra che amo più di qualsiasi madre.

Con tutta la rabbia e con tutto l’amore (Giorgio Gaber). Ho conosciuto molte persone meravigliose che hanno idee e sogni, tantissimi ragazzi che credono in quello che dicono, voglio che queste persone si riportino all’azione e diventino attori della loro fede: la nuova politica. Quella che rispetta le idee che rispettano altre idee. E’ per questo che si aprirà un laboratorio sociale di performazione, il primo tra Adrano, Santa Maria di Licodia e Biancavilla. Ad un unico prezzo: tutta la vostra voglia di fare e donare, di parlare con chi ancora ascolta la televisione, di dare ad altri giovani e ad altri uomini la possibilità di scegliere se continuare ad essere insaccati di plastica, oppure, avere un domani migliore… con l’aiuto del proprio io interiore.

Le iscrizioni sono aperte al laboratorio sociale di performazione “Con tutta la rabbia e con tutto l’amore” e prevedono performance come quella dell’inaugurazione di Symmachia, se ve la siete persa, non vi preoccupate, ne vedrete altre migliori! Il corso teatrale aprirà a Marzo, affrettatevi e non perdete l’occasione di fare politica nel migliore dei mondi… vivendo davvero le vostre idee, coinvolgendo con l’emozione chi ha smesso di sognare!

Sì, tutto si può fare, basta crederci!

Storie d’ironia: pizzo o prigionia?!

in Controcultura di

di Andrea Mammoliti

Incosciènte: chi mostra di non valutare il pericolo cui espone altri o sé stesso agendo inconsideratamente, o la gravità del male che egli provoca per leggerezza e stoltezza più che per deliberato proposito. [fonte: Vocabolario Treccani] Oserei definire così, seppur nei sentimenti del lettore possa manifestarsi disdegno, chiunque tenti di opporsi al volere delle organizzazioni mafiose. Con l’ausilio del sopracitato aggettivo, il tentativo sarà quello di stimolare, attraverso una sottile ironia ed un forte rammarico, i motivi per cui chi si ribella al “sistema” mafioso – definirlo tale è già esagerato, dato che la mafia, quella vera, è ben altro, è quella che dal lontano ’45 fa accordi con lo stato, il NOSTRO stato, sotto i nostri occhi- costituito da una sparuta ed esigua minoranza di ominicchi che continuano a scocciare il quieto vivere degli onesti cittadini, sia da considerare incosciènte: 1- “mostra di non valutare il pericolo”: se dopo una serie di ‘amichevoli telefonate’ e di ‘ultimatum pacifici’, il soggetto definito incosciènte continua ad intralciare il “sistema” ed evita di mostrarsi consenziente alle gentili richieste, chiaramente sorge spontaneo, agli occhi dello spettatore, il giudizio dell’incapacità dell’individuo di riconoscere ciò che è pericoloso da ciò che non lo è. 2- “espone gli altri o sé al pericolo agendo inconsideratamente”: ebbene, se dopo aver rifiutato in maniera scortese di collaborare, il soggetto fa pure accordi con gli “sbirri” al fine di poter rifiutare definitivamente le gentili richieste, allora proprio non ci sta con la testa. E su questo non ci piove! 3- “non valuta la gravità del male che egli provoca per stoltezza”: questo pover uomo riesce pure a mandare in galera quei quattro la, è davvero impazzito. Segnato a vita. Non solo lui, ma parenti di parenti e amici di amici. Punto. Caput. Addio vita, tutto questo per aver rifiutato una cortese ed esigua richiesta di denaro da parte di pochi ominicchi. Follia pura! 4- “non valuta la gravità del male che egli provoca per stoltezza, più che per deliberato proposito”: e certo, di deliberato proposito ha ben poco, tanto che poi uno di questi lo hanno pure liberato ed ancora circola tranquillo per le vie del paese e probabilmente sarà pure andato a citofonare al nostro folle protagonista e chiedergli come sta. La novità è che questo ragazzo ad oggi vive costantemente, ogni impercettibile istante della sua vita, con la scorta. Una sorta di angeli custodi. A tempo però. Ebbene si, la scorta va rinnovata e se la situazione “si è tranquillizzata” questa può essere rimossa. Affidata dai piani alti, rimossa dai piani alti (UCIS Ufficio Centrale Interforze per la Sicurezza Personale). Ingabbiato da una sua stessa decisione. Oh, ma fortunatamente non sono tutti come lui: non vedo e non sento, figuriamoci se parlo! Tanti continuano a collaborare con questo sistema mafioso. Certo devono pagare, però sono liberi e hanno la loro vita! Intouchables. Intoccabili. E chi, diciamocelo chiaramente, non vorrebbe vivere “liberamente” piuttosto che remare contro il pizzo mafioso e incatenarsi per sempre?!

Dal Giappone al Mediterraneo, il jazz di Dino Rubino

in Controcultura di

di Maria Agata Salamone e Samuela Mannino

Oggi giorno, epoca in cui i nostri piccoli paesi locali vengono visti solo come aridi e improduttivi, abbiamo il piacere di farvi conoscere uno dei nostri orgogli siculi. Si tratta di Dino Rubino giovane musicista nato proprio a Biancavilla. Si appassiona subito alla musica iniziando a studiare pianoforte al conservatorio V. Bellini di Catania, per poi abbandonarlo per dedicarsi allo studio della tromba. Si lascia coinvolgere dal genere jazz rimanendo comunque legato al pianoforte, col passare del tempo decide di alternare i due strumenti creando qualcosa di originale. Oltre al suo talento vogliamo riconoscergli la grande disponibilità che ha mostrato verso di noi per questa intervista.

  • Sei una delle poche persone che è riuscita a riscuotere successo nell’ambito musicale partendo da un piccolo paese come Biancavilla. Raccontaci in breve la tua storia partendo dagli albori.

Intanto vorrei ringraziare voi tutti per l’attenzione che mi avete rivolto, ne sono molto contento. Ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente dove la musica era una compagnia di tutti i giorni.

Mio padre, oltre ad essere stato uno dei primi batteristi jazz della provincia di Catania e aver gestito per quattro anni un piccolo e fortunato club a Biancavilla in cui si sono esibiti i più importanti jazzisti Italiani e non, ha sempre amato l’arte e soprattutto la musica, un amore che evidentemente in qualche modo mi è stato trasferito.

Non saprei dire il momento esatto in cui ho scelto di fare il musicista perché le prime immagini di vita incominciano con dei suoni; ricordo bene che a tre anni sognavo di diventare un musicista, dunque successivamente i primi gruppi coi compagni locali, le prime esibizioni live dalle suore, l’iscrizione al Conservatorio di Catania, la banda del paese diretta da Padre Chisari, le novene durante il periodo natalizio! Insomma la musica è da sempre stata la compagnia più intima.

  • Il tuo primo disco, “mi sono innamorato di te”, è stato registrato dall’etichetta Venus. Perché proprio in Giappone?

Nel 2008 presi parte alla registrazione di un disco di Francesco Cafiso per un’etichetta giapponese. Durante la recording in studio conobbi il produttore, Tetsuo Hara, e qualche mese dopo fui contattò dallo stesso per registrare un disco da leader.

Ricordo che andai in studio assieme altri musicisti con cui non avevo mai suonato e in due giorni registrammo “ Mi sono innamorato di Te”.

La session recording si è svolta in Italia ma il disco è stato pubblicato in Giappone.

Qualche tempo dopo ricevetti una telefonata da parte di una mia amica che si trovava in Giappone la quale mi raccontava di aver visto un manifesto per strada con una foto che mi ritraeva. Fu molto buffo sapere ciò!

  • Sei un po’ un’eccezione: hai la caratteristica di suonare due strumenti così diversi, il piano e la tromba. Come mai questa scelta?

Questa è una domanda che mi hanno fatto e che continuano a farmi molte persone e che di tanto in tanto, ancora oggi, mi pongo anch’io. Ho avuto un rapporto molto difficile con la tromba.

All’età di ventidue anni, nonostante avessi l’appoggio e la stima di numerosi musicisti validi, decisi di non suonarla più. Ripresi così a studiare pianoforte e solo cinque anni dopo sentii il bisogno di riprendere nuovamente l’ottone abbandonato tra le braccia.

Dal 2008 ho iniziato a suonare entrambi gli strumenti con regolarità imparando a convivere con i vantaggi e svantaggi che questa situazione bizzarra delle volte mi comporta.

  • Il tuo secondo album, “Zenzi”, è dedicato a Miriam Makeba, conosciuta anche come Mama Africa. Sappiamo che fu un’attivista politica contro il regime di apartheid in Sudafrica e che si spense poco tempo dopo la fine di un concerto contro il razzismo e la camorra, che era stato tenuto in Italia stessa per Roberto Saviano. Perché la scelta di dedicare l’album proprio a lei?

Ci sono persone che sfidano la vita con tanto coraggio riuscendo a realizzare molte cose.

Poi ce ne sono delle altre che vengono sfidate dalla vita; penso che sia soprattutto nel secondo caso in cui la vera forza e nobiltà d’animo di una persona si manifesta pienamente.

Miriam Makeba ha dimostrato di avere un coraggio e una dignità che noi tutti dovremo prendere come esempio; è stata una grande donna che ha fatto del bene all’umanità.

  • Spesso un’artista è costretto a fare una vita da nomade spostandosi per le varie città. Avverti, a volte, il bisogno di ritornare nel tuo paese, alle tue origini?

L’amore per la musica e soprattutto per tutto quello che c’è dietro la stessa mi ha portato a fare delle scelte.

Da circa un anno vivo a Parigi e passo molto tempo in viaggio tra una città e l’altra, aeroporti, stazioni, hotel, ecc ecc…

Delle volte mi manca la Sicilia con i suoi odori, il Mediterraneo, l’Etna, ma il bisogno di fare musica è più forte di qualsiasi altra cosa e non assecondarlo significherebbe soffocare una delle parti più autentiche di quello che sono.

  • Molti non seguono il proprio sogno per paura di non riuscire. Tu come sei riuscito a fare carriera? Cosa credi debba fare chi vuole intraprendere questa strada?

Chi non segue i propri sogni spesso lo fa perché li sconosce.

Quando una persona comprende che guardare la luna provoca in lei un forte senso di benessere, la sera, naturalmente, inizierà a cercarla tra le stelle.

Certo, ci saranno delle volte in cui non riuscirà a vederla per via delle nubi o forse per una leggera foschia ma continuerà comunque a cercarla perché sente che la sua anima ne ha un profondo bisogno.

Herman Hesse diceva che il primo passo per realizzare un sogno è scoprire quale sia.

Più un sogno è autentico più sarà la forza interiore che ci spingerà verso lo stesso.

  • Parlaci un po’ del tuo ultimo disco.

Vorrei raccontare una storia che riguarda la registrazione di “Roaming Heart.”

La mattina del 16 Dicembre, dopo aver preso svariati treni, arrivai in uno studio di registrazione immerso nella campagna poco fuori da Parigi.  A farmi compagnia, l’unica visto che si trattava di una session in piano solo, c’era il  quaderno su cui avevo annotato tutte le idee e musiche che intendevo registrare durante quei due giorni.

Rientrato la sera a casa, ricevetti una mail da Paolo Fresu, splendida persona e artista che da quattro anni produce i miei lavori, la quale mi chiedeva di poter ascoltare il materiale registrato durante quella prima giornata.

La mattina successiva, una volta arrivato in studio, mandai a Paolo tutta la musica registrata e intorno alle 16.00 ricevetti una sua telefonata la quale mi diceva che tutto quello che aveva ascoltato andava bene ma che gli sarebbe piaciuto se nelle ultime poche ore rimanenti, avevo tempo fino alle 20.00, avessi potuto suonare della musica improvvisata sul momento.

Finita la conversazione ricordo che non avevo nessuna voglia di suonare, sentivo soltanto il bisogno di uscire da quella stanza per schiarirmi le idee. Dietro lo studio c’era un grande parco e anche se fuori piovigginava e faceva molto freddo uscii e camminai per circa un’ora. Rientrato un po’ umidiccio iniziai a suonare per due ore di fila.

Morale della favola, la maggior parte della musica contenuta in “Roaming Heart” è stata improvvisata in quelle due ultime ore. Il disco uscirà il 16 Giugno in Italia e Francia con una coproduzione che vede la Tùk Music di Fresu e la Bonsai Music di Pierre Darmon.

Riportiamo qui le sue parole “Chi non segue i propri sogni spesso lo fa perché li sconosce”  è vero che troppo spesso ci viene dato tutto e dimentichiamo di rincorrere un sogno come invece ha fatto Dico riscendo ad eccellere nel suo campo.

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