Nel giugno 2008 a Biancavilla è stata inaugurata l’esposizione permanente del disegno satirico e umoristico di Giuseppe Coco. Un vero e proprio gioiello dell’opera grafica del cartoonist di costume conteso negli anni ‘70 e ‘80 dalle più note e diffuse testate europee.
Lo abbiamo intervistato nel suo “museo” per una speciale visita guidata. Un modo per parlare estemporaneamente di arte e letteratura, di ricordi e nostalgie, di segreti e ammiccamenti…
Maestro, vignette e tavole: qual è la differenza? C’è un rapporto gerarchico tra le due? E Coco verso quale si sente più congeniale?
Naturalmente verso la tavola, perché permette un’espansione maggiore. Si ha come l’impressione di realizzare un affresco. La vignetta, invece, per sua natura, è più richiesta dalle agenzie. Vengono fatte diverse copie e distribuite nei giornali. E soprattutto occupa uno spazio minore. Specie in Italia, le vignette, sempre in orizzontale, occupavano 12×7 cm. Io le amavo moltissimo.
Quando mi commissionavano delle vignette, io mi ponevo un tema e poi le realizzavo. Intorno agli anni Settanta sono cominciate le tavole a colori e ho cominciato con Playmen. Ricordo che il direttore Luciano Oppo mi telefono: “Coco, ho visto delle tue cose, ma a me le vignette non interessano. Voglio delle tavole a colori con una gag. Voglio che si allontanino il più possibile dalla vignetta”. E così sono nate le mie opere. Le tavole per Playmen sono dei quadri veri e propri.
Lei ha utilizzato sia la tecnica con i colori a tempera che il bianco e nero: tra le due c’è una differenza?
La differenza è sostanziale: nel bianco e nero i piani o la prospettiva la trovo tramite un tratteggio, quindi una via di fuga per quello che tu disegni: c’è un primo piano e poi il tutto converge in fuga, come in un imbuto, nel colore c’è solo il tratto, mentre il chiaro-scuro e la fuga delle cose rappresentate sono fatte col colore. Un vero disegnatore si riconosce dal disegno perché il colore aiuta (e fuorvia) moltissimo. Ad esempio, mentre un colore caldo forma un piano, uno freddo forma lo sfondo, nel bianco e nero questo non c’è, si ha solo il tratto nero.
Io mi divertivo un mondo a fare le tavole in bianco e nero, utilizzando diversi segreti. Utilizzavo un pennino grosso, un Perry e un Atom, pennini che non si utilizzano più, perché oggi nessuno disegna. Nel disegno c’è tutto. L’illustrazione, la vignetta, i cartoni animati hanno preso la supremazia su certi valori plastici.
Ricordo che in seguito ad un film stupendo, Il mistero Picasso di Henri Clouzot, film che circolava negli anni Sessanta, si tenevano diversi dibattiti. C’era chi sosteneva: “Più che un pittore, Picasso sembra un disegnatore” e chi ribatteva, e io condivido la risposta, “e chi se ne frega!” (ride, ndr).
Con ciò si vuole dire che quando un disegno dice tutto è superfluo aggiungere altre cose. C’è un quadro che considero bellissimo Donna piangente di Picasso dove è possibile vedere tutte le smorfie, le rughe, le lacrime di una donna.
Questo è un disegno colorato e a nessuno interessa se ha usato il chiaro-scuro perché è tutto un disegno ed è importante che si è riusciti nel comunicare ciò che si voleva comunicare.
Quindi tra un pittore e un disegnatore c’è differenza?
Per me Picasso rimane il più grande disegnatore del mondo, ma ciò non vuol dire che l’essere disegnatore lo escluda dall’essere anche pittore.
Queste 86 tavole hanno un ordine logico?
Non nell’ordine di numerazione. C’è una coerenza nello stile e una differenza nel soggetto, perché è tutto subordinato al tema. Ad esempio, se io devo disegnare una persona chiusa in una stanza, escludo la folla. Nella folla, nella frantumazione di tutto il disegno io mi riconosco.
Ma c’è un’evoluzione?
Si, nel tratto c’è un’evoluzione!
Secondo lei, dove è ravvisabile la maggiore evoluzione?
Per me è cominciata nel ’72-’73 con Playmen, con il piacere morboso di disegnare. Lì ti senti padrone del disegno. Questa padronanza te la dà il disegno in bianco e nero, infatti non sempre sono capace di disegnare in bianco e nero. E’ come se volessi entrare dentro col fare il rilievo, la prospettiva e poi io faccio delle false illusioni di fuga, e tutto ciò mi diverte infinitamente. Un vero artista si vede nel disegno. Quando uno non sa disegnare lo si vede benissimo.
Da Biancavilla a Milano il passaggio è forte. Oggi cosa le manca di Milano? E quando si trovava a Milano cosa le mancava di Biancavilla?
Di Biancavilla non mi mancava niente! Neanche di Adrano: nemmeno per idea, anche se io ho un “ramo ‘ddurnisi”, mio nonno.
Negli ultimi anni tornavo qui perché avevo un giardino. E qualcuno mi chiedeva: “torni qui per le tue radici? E io rispondevo “sì, sì per le radici… del mio giardino!” (si ride, ndr).
Io credo molto nell’intelligenza dei siciliani, come radice. Ma i siciliani attraversano periodi in cui sono distratti da tanti problemi. Qualche volta incontro qualcuno che sa cosa è l’Arte. Il resto non è che non la capisce, non gliene importa niente… ha altri interessi.
L’infanzia di Coco a Biancavilla come è stata?
Brutta, perché avevo dei fratelli più grandi che giocavano a palla. Però, non c’erano soldi e usavano un barattolo. Io ero piccolo e non capivo. Mi dicevano di fare il portiere e mi mettevano tra due sacchi che facevano la porta. Credevo che dovessi parare… E invece ho scoperto che chi mi colpiva segnava un punto! Infatti, ho una cicatrice sul braccio e altre quattro, cinque cicatrici in testa. Ho sempre avuto l’impressione che volessero farmi fuori!
Andando a Milano, che aria si respirava?
Era tutto bellissimo, perché era tutto in crescita. Ma ho dovuto lottare. Prima abitavo in pensioni, nel ’63 avuto il contratto finalmente potevo permettermi una casa…
deperimento organico. Insomma, il rischio c’è ed è forte. E’ un’avventura insomma. E io ero turbato quando dicevano sottovoce, indicandomi, “quello è un professionista”. E dicevo tra me e me: “forse ho sbagliato. Adesso mi impiego!” (ride, ndr)
Quali erano gli artisti più in vista?
Il periodo veramente creativo a Milano è stato il movimento di pittura astratta. Tra i fumettisti c’erano Guido Crepax, Dino Battaglia e Hugo Pratt. Tra i disegnatori c’era Cavallo.
Quando io ho cominciato a pubblicare su Playmen ho cercato di fare qualcosa di diverso. E questo mi è stato riconosciuto. Peccato che oggi non ci sono più giornali votati alla grafica. Ecco perché io dico che questi disegni (indica le opere esposte a Villa delle Favare, ndr) ci rappresentano veramente, noi viviamo di questi. Il fare classico è morto e sepolto.
I cattivi maestri di Coco quali sono stati?
Anche se li cito nessuno li conosce… Sono intellettuali che hanno scritto e che hanno una visione del mondo, non dico completamente trasversale, ma un po’ diagonale. Sono dei mistici orientali: Tilopa, Milarepa, ma anche scrittori come Franz Kafka, nel quale mi riconoscevo. Poi, a 16-17 anni avevo letto tutto Allan Poe. Invece i pittori che mi hanno turbato sono Franz Kline, ma non per la pittura, perché lui non dipingeva ma faceva delle macchie, difatti è il pittore più copiato.
Quando nell’86O-’87O muore l’ancien regime c’è una rivoluzione industriale, e quello che viene a mancare è la necessità di rappresentare la cosa. Questa è la radice dell’arte astratta e cioè la pittura non come rappresentazione, ma come espressione, quindi si arriva al novecentocinque con Kandinskij, per poi arrivare a Picasso. I grandi maestri sono questi. Io a 14 anni ebbi
una crisi e smisi di disegnare anche per il fatto di avere dei cattivi maestri che mi dicevano cosa dovevo fare. A Lucca abbiamo constatato che io, Giraud e Crepax, abbiamo avuto tutti la stessa crisi adolescenziale, in cui nessuno per qualche anno ha più disegnato. Perché disegnare copiando è di una banalità, e di una stupidità fortissima. Poi a 15 anni scopri la fantasia e sei libero di fare ciò che vuoi. A me colpì Picasso e ripresi a disegnare.
Tra le mostre c’è qualcuna che ha segnato una tappa fondamentale?
Sicuramente la mostra del ’68, quella della Pop-art a Venezia. A Milano c’era persino la difficoltà di riuscire a vedere tutte le mostre: ce n’erano così tante in città… A Palazzo Reale ci sono state delle mostre davvero interessanti, come quelle dei Surrealisti o di Renè Magritte.
Fondere l’umorismo con il surrealismo è cosa semplice?
Sono parenti. Io agisco con delle similitudini grafiche, perché se, per esempio, io realizzo di tre quarti una figura appoggiata, mi dà lo spazio per mettere altre due braccia e il soggetto risulta appoggiato su tre braccia. Questo può essere una gag, ma anche surrealismo. Ma potrebbe essere anche una scena dolorosa come l’autoritratto che ho fatto e che è qui esposto.
C’è una famosa fotografia di Gadda dalla quale ho tratto lo spunto per una mia opera. Ho rappresentato un soggetto, un mostro con sette dita che si copre il volto per non vedere il mondo. Non c’è un surrealismo alla Andrè Breton, nel quale in modo ortodosso si interpretano gli archetipi dell’incontro collettivo, questo lo fa Renè Magritte.
C’è un surrealismo psicologico che in qualche modo ti colpisce. Altrimenti non si spiega quel quadro bellissimo di Salvador Dalì dove c’è una siepe e c’è un cucchiaio che esce come un serpente.
La donna è stata oggetto privilegiato delle sue opere. Come mai?
Perché gli uomini vengono attratti dalle donne e viceversa. Io l’ho disegnata per diciotto anni per Playmen. Incominci a divertirti. Poi se tu disegni il nudo di donna è sempre un nuovo piano architettonico che fai. L’uomo non presenta alcuna attrattiva.
Cosa è stata, cosa è e cosa sarà l’Italia del fumetto?
Adesso il fumetto è diventato stupido, più violento. Prima c’era eleganza. Poi ho visto i fumetti dei miei nipoti stile
sono brutti e di una violenza inaudita.
Oggi non ci sono giornali che pubblicano fumetti. C’è Famiglia Cristiana che pubblica le vignette con disegnatori uno peggiore dell’altro. C’è il culto del disegno, della personalità, del personaggio disegnato. Ho lavorato talmente tanto e qualche amico di Milano dice “perché non li raccogli?” Ma cosa raccolgo?!, ci vorrebbe un Palazzo. Questa esposizione è infatti il meglio di Coco ed è bene dire così perché questi presentati, sono i lavori più ricercati. Fatti per essere esposti e visti, cosa che a me non dispiace.
Il piacere di dipingere di disegnare c’è e c’è sempre. Ma quando si lavora su commissione e magari non è nelle sue intenzioni, come riesce a distaccarsi dal tema che magari non preferisce?
Se uno commissiona il più delle volte si sta a metà strada per accontentare il cliente. Quando qualcuno mi commissiona un disegno è perché ha visto in precedenza delle opere. Io mi esaltavo quando qualcuno mi ordinava delle opere, dopo aver visto i miei lavori.
Nel ‘66, quando incominciavo ad essere notato, il Corriere dei Piccoli mi ordinò dei disegni che, obiettivamente, erano abbastanza grandi, e Cassio Morosetti, quasi sospettando che cosa avessi realizzato mi disse: “Coco fai delle bozze e poi mi mostri il disegno”. Ciò perché potevo approfittare dello spazio messo a disposizione per fare e dare spazio alle mie idee, alla mia creatività. Questo loro non lo volevano, perché avevano visto delle tipologie di disegno e volevano proprio quei temi tradizionali. Questo è il meccanismo dell’ultimo Peppino Migneco, che dipinse per cinquant’anni cesti con i “masculini” fino a quando non si stufò. Il suo committente gli disse che la richiesta era proprio quel tipo di lettura, altrimenti non avrebbe rinnovato il contratto e lui rimase costretto a dipingere quel tipo di ceste con il pesce.
Ciò vuol dire che quando si vive dell’Arte è necessario dimenticare l’Arte, per poi entrare nelle opere comunque, se questa c’è.
Quando stavo a Biancavilla pubblicavo sul Travaso, che mi dedicava delle pagine e non sapeva che avevo 17 anni. Quando sono arrivato a Milano ho dovuto cancellare tutto perché nelle grandi città ci sono “nuovi riti, nuovi miti” e quello che conta anche nei contratti delle grandi gallerie è il denaro. Si finisce per diventare dei geni senza una lira in tasca. Se l’Arte c’è questa entrerà comunque nell’opera.
Un artista sceglie anche il suo target: Coco è per l’elite o per la massa?
Io sono per tutti e due. Solo che a volte non ci riesco. Ma l’ideale è questo. Gli scrittori ci riescono meglio, mentre nel disegno è più difficile. Don Chisciotte è un romanzo di successo perché, tu che sei anche archeologo (riferito a Placido Antonio Sangiorgio), è una tettonica a strati. C’è uno strato che è quello dell’avventura, della comicità. Poi ci sono altri strati… c’è anche la storia delle società segrete in Europa. Perché quando lui entra nel mondo magico degli eroi, c’è un dormitoio pubblico di cavalieri erranti morti.
L’altra sera sono giunto alla conclusione che gli insegnanti che fanno concludere i corsi sono i professori cretini, quelli bravi vengono richiamati dal Preside e mandati.
Questo museo a chi è affidato idealmente? Chi è il destinatario privilegiato di questo Museo?
Ai cittadini di Biancavilla. L’ideale sarebbe questo.
Nella seconda pagina del contratto stilato ho voluto fare una donazione ai biancavillesi.
Il fatto che così tanti giovani facenti ad un periodico siano qui, a ritrovarsi per conoscere Coco non è di poco conto…
Il messaggio nelle opere è tutto evidente, c’è una radiografia dell’autore. Si deve cercare attentamente cosa è disegnato e come è disegnato. L’autore, io, non conto proprio niente. Contano di più i miei disegni, la mia radiografia è lì (indica le opere) e c’è anche la mia visione del mondo.
Al maestro Giuseppe Coco i più sinceri ringraziamenti ed apprezzamenti per averci fatto dono di un incontro esclusivo di alto profilo culturale e dell’opportunità di pubblicare una sua opera in questo Speciale di Symmachia.