Giovanni Falcone non avrebbe voluto essere commemorato. Lui non voleva che si ricordasse la sua morte, ma quella della mafia. Invece ancora una volta “cosa nostra” ha vinto; ha vinto perché noi non abbiamo combattuto insieme a quelli che oggi chiamiamo eroi, ma li abbiamo lasciati soli. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano appena concluso una battaglia e quando lo stato avrebbe dovuto mettergli a disposizione le armi per vincere la guerra, ha preferito lasciarli soli, ha optato per la trattativa, ha decretato il loro martirio.
Nino Di Matteo ha 53 anni, un uomo alto e robusto. Siciliano. E’ cresciuto a Palermo, ha condotto processi contro boss, servizi segreti e mandanti di attentati mafiosi, ha fatto luce sugli omicidi di giudici. Conosce il DNA della mafia fin nella più minuscola molecola. Vive sotto scorta da 22 anni. Quando nacquero i suoi due figli le guardie del corpo lo accompagnarono fino in sala parto. Di Matteo è uno di quei giovani magistrati che vegliò la bara di Borsellino. Quel momento dell’estate del 1992 divenne un punto di svolta per un’intera generazione di magistrati antimafia italiani. Il sangue dei due giudici non era ancora asciutto, che lo Stato italiano aveva già capitolato e stava negoziando con la mafia.
Questo patto tra Stato e mafia aleggia ancora oggi sull’Italia come una nube tossica. Nino Di Matteo guida il processo che si pone come obiettivo di svelare il patto dietro al quale si cela il più sordido segreto di famiglia italiano. “L’accusa che noi muoviamo non è quella di aver trattato con la mafia. E’ eticamente riprovevole, ma penalmente non punibile”, dice Di Matteo in una intervista nel corridoio gelato dell’aula bunker. “Accusiamo gli imputati di aver fatto da ambasciatori per le richieste mafiose”. Quando parla del suo processo, non un battito di ciglia in Nino Di Matteo tradisce quanto gli sia costato derubare lui della sua libertà e la sua famiglia di una vita normale. Soppesa le parole oculatamente, perché sa che ciascuna di esse potrà essere usata contro di lui.
Ad ogni udienza i boss sotto accusa sono in collegamento video dai carceri di massima sicurezza: sui teleschermi disseminati per tutta la sala si vedono uomini anziani con occhiali da lettura e pullover di lana. I politici e i servitori dello Stato accusati inviano i loro legali. Perché se sedessero tutti insieme sul banco degli imputati, le connessioni tra Stato e mafia smetterebbero di essere invisibili, assumerebbero dei volti. Come il volto arrossato dell’ex ministro degli Interni Nicola Mancino. Oppure il viso un po’ pasciuto dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, braccio destro di Berlusconi, attualmente in carcere per concorso in associazione mafiosa. La faccia baffuta da topo del generale dei carabinieri Mario Mori.
Il suo collega Antonio Subranni serrerebbe ancor di più le sue labbra sottili. Tutti loro dovrebbero sedere sul banco degli imputati accanto a boss mafiosi come Totò Riina e suo cognato Leoluca Bagarella. E questo vogliono impedirlo a qualsiasi costo. Quando nel 2013 fu aperto il processo, i giornali titolavano: “Lo Stato processa se stesso”. Tuttavia continua ad esserci poco interesse.
Per molti italiani la trattativa è il peccato originale della Seconda Repubblica, che fu proclamata quando nel 1994 Berlusconi salì al potere. Il patto tra lo Stato e la mafia è il grembo da cui tutto ha avuto origine: l’inizio del predominio di una classe politica che aveva fraternizzato con la mafia. Il patto in Italia ha avuto come conseguenza un decadimento morale senza precedenti: la corruzione diventò un peccato veniale e l’ambiente fu distrutto senza scrupoli. E poiché questo patto tra Stato e mafia perdura ancora oggi, il magistrato competente Nino Di Matteo è sorvegliato da 42 guardie del corpo. “Probabilmente questo mi ha salvato la vita”, dice Nino Di Matteo.
Intanto il boss Totò Riina è stato intercettato nel cortile del carcere mentre raccontava ad un altro boss del progetto di esecuzione per Di Matteo, che deve essere fatto a pezzi “come un tonno”. Il boss detenuto Vito Galatolo, figlio di un’antica famiglia mafiosa, voleva alleggerirsi la coscienza e ha fatto sapere a Di Matteo che i preparativi per l’attentato contro di lui erano già in fase avanzata: i boss avrebbero raccolto 600.000 euro per acquistare 150 chili di esplosivo. Nino di Matteo dice: “Quando una cosa del genere diventa pubblica, occorre ovviamente tranquillizzare la famiglia.” Fa una lunga pausa e osserva: “Anche se non c’è proprio nulla di cui star tranquilli.”
In una giornata di udienza sul banco dei testimoni è salito anche un sacerdote: don Fabio Fabbri. Monsignor Fabbri era stato chiamato a depositare in quanto, si dice, conosceva bene Pertini, Giulio Andreotti e persino il Papa, ma quando si trovò a rispondere alle domande di Nino Di Matteo si capì subito che non poteva reggere il confronto. Infatti dopo qualche minuto in cui il parroco fece finta di essere tondo l’intera aula è raggelata quando il Monsignore fu costretto ad ammettere di essersi consigliato con un amico dei servizi segreti su come riuscire ad impedire la sua deposizione davanti alla corte. Già, i Servizi Segreti. Sono proprio questi i momenti in cui si percepisce quanto sia pericoloso questo processo per la rete di agenti segreti, di servitori infedeli dello Stato e di politici. E così nel corso delle indagini viene fuori che agenti dei servizi entravano ed uscivano dal carcere di massima sicurezza per controllare i boss detenuti e soffocare sul nascere possibili confessioni, come accadde per il boss Antonino Gioé, che fu trovato strangolato nella sua cella. E da quando nell’estate 2014 il procuratore generale di Palermo indaga su questo oscuro ruolo dei servizi segreti nel carcere di massima sicurezza, trova sulla sua scrivania del Palazzo di Giustizia una lettera di minacce, e non da parte della mafia.
Le caratteristiche formali della lettera lasciano intuire essere proveniente dall’ambito dei cosiddetti servizi segreti “deviati”. Non solo nella lettera viene descritta nei dettagli la sua casa, ma gli viene anche intimato di “rimettersi in riga” e di non sottovalutare “l’intelligenza altrui”. Perché “non facciamo eroi”, che sta a significare che oltre alla morte esistono altre possibilità per annientare una persona. Successivamente si viene a sapere che quando la lettera è stata messa sulla scrivania del procuratore le telecamere erano spente. Stasi all’italiana. A confronto con questa realtà “House of Cards” (serie tv statunitense che narra gli intrighi del potere ambientata a Washington) è un teatrino di marionette. Monsignor Fabbri non è l’unico che in questo processo cerca di impedire la propria deposizione. L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino a questo scopo ha tirato in ballo nientemeno che l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. I nastri di questa telefonata si sono dovuti distruggere su ordine di Napolitano. Da allora aleggia il sospetto che non si sia trattato di tutelare la privacy del presidente, ma piuttosto di insabbiare il patto tra Stato e mafia. Tanto più che il suo consigliere giuridico in una missiva al presidente esprimeva il timore “di essere stato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi” negli anni degli attentati mafiosi. Da lì a poco il consigliere personale muore per infarto a soli 64 anni. “Mentre corteggiava la mafia, lo Stato ha ottenuto esattamente il contrario: non la fine degli attentati, bensì altre bombe”, dice Nino Di Matteo nel suo ufficio a Palazzo di Giustizia. Appese al muro, alle sue spalle, targhette in ricordo di indagini internazionali, un crocifisso e le foto dei magistrati uccisi Falcone e Borsellino. Parla in modo vistosamente lento, come qualcuno consapevole della fugacità dell’attimo.
Che il patto tra mafia e lo stato italiano non sia mai venuto meno, lo si può leggere non solo nelle minacce di morte a Di Matteo, anche il silenzio da parte dei politici al governo ha un che di spettrale. Senza sostegno politico a Nino Di Matteo non resta altro che affidarsi alle sue guardie del corpo, finché sarà possibile. Non può nemmeno andare a mangiare una pizza, fare una gita al mare con i suoi figli, andare al cinema. È prigioniero. “Spesso rifletto sul fatto che in Italia c’è un grande desiderio di giustizia che pesa sulle spalle di pochi”, dice Di Matteo. Alcuni (pochissimi) avrebbero visto bene Nino Di Matteo come Presidente della Repubblica. Ma il Consiglio Superiore della Magistratura gli nega la promozione che gli spetta e colleghi preoccupati per la sua ascesa prendono le distanze da lui. Questo accadde anche a Falcone e Borsellino, Nino Di Matteo lo sa. “Sì”, dice tranquillo, “è triste che non abbiamo imparato nulla dal passato.”
Calogero Rapisarda
“IL FRESCO PROFUMO DI LIBERTA’ – IN RICORDO DI GIOVANNI FALCONE, DELLA MOGLIE E DEGLI AGENTI DELLA SCORTA”
Pomeriggio, ore 18, Villa delle Favare, Biancavilla.